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venerdì 8 novembre 2013

Memoria di pesce rosso

Disclaimer: il tema di questo post, o sarebbe meglio dire insieme di considerazioni, mi è stato suggerito da un amico. Trovandomi d’accordo con lui praticamente su tutto ed essendo il tema sufficientemente speziato, non potevo non cogliere la palla al balzo e sviluppare un’articolazione più densa della conversazione che si svolse sulla sua auto mentre andavamo a bere gran copia di birra al Birrificio di Lambrate. Devo dunque dei ringraziamenti a lui e ne approfitto per augurarvi una buona lettura.


Delle due una: o il tempo, negli ultimi anni, corre più rapidamente, oppure le nostre facoltà di comprensione, assimilazione ed apprezzamento stanno degenerando nella voracità bulimica ascrivibile all’archetipo di homo consumandi.
Incipit del post decisamente poco user-friendly. Va benissimo così.
La Weltanschauung* della società comune, me incluso, e sono certo anche numerosi di voi stimati astanti, ha teso allo stravolgimento se si considerano gli ultimi, diciamo, vent’anni. E noialtri fieri e pasciuti ne siamo forieri anche con una punta di orgoglio, in qualche caso. Capita anche a me, nonostante voglia e tenti fino allo stremo di cercare di essere un po’ in là, attaccato ai miei Sancta Sanctorum, i miei riferimenti esistenziali, quasi riposti in Iperuranio, modelli sublimi di un mondo che sublime non è, ma che lo diventa se applichiamo i nostri modelli culturali, sociali, ludici ad esso stesso. Si potrebbe dire quasi che il mondo lo creiamo ogni giorno a partire dai nostri riferimenti personali, e per definizione allora esistono miliardi di mondi possibili, anzi, reali e tangibili, semplicemente uno per ogni persona che vive su questa terra, e sogna. Questa considerazione mi fa venire in mente un aneddoto, per cui un gruppo di esploratori portoghesi vattelapesca in quale Anno Domini, giunto nel cuore di tenebra delle foreste indonesiane, incontra degli indigeni, dei primitivi. Costoro, dopo l’evidente primo momento di paura e tensione, perché non esiste niente di più crudele e feroce che l’uomo stesso, avvicinatisi al gruppo di europei, mettono per prima cosa le mani in faccia ai nuovi arrivati, con altrettanto evidente stupore degli Heróis do Mar, perché vedendo esseri umani bianchi, e non contemplando nella loro visione del mondo il fatto che altri esseri umani potessero avere un colore della pelle diverso da quello ambrato tipico dei locali, cercavano di togliere loro quel cerone rituale che si dovevano esser messi per chissà quale ancestrale devozione. Il mondo degli uomini delle foreste indonesiane era forgiato da loro stessi escludendo a priori che esistesse un colore della pelle diverso dal caramello. Sicuramente lo shock culturale deve essere stato forte. Ma non è di questo che volevo parlarvi.
Non volevo parlarvi di aborigeni, colori della pelle, viaggi verso strani, nuovi mondi, né di Iperuranio e via dicendo. Volevo parlarvi di musica. E territorî circostanti.
Un buon paio di anni fa mi trovavo con la ragazza con cui stavo in quel periodo, in quel di Colonia, passeggiando per i sobborghi antistanti al centro città in direzione dell’università. Decidemmo di fare un gioco: farci delle domande a vicenda per vedere se ci conoscevamo veramente, visto che erano quasi tre anni che stavamo assieme.
Sia fatta una considerazione, ovviamente in pieno mio stile, altrimenti detto con una non velata dose concentrata di misoginia. Andai ad imbarcarmi in un gioco tremendamente amato dal genere femminile, ossia il “ti metto in croce in 3 facili step e non te ne accorgi neanche, e quando te ne accorgi, ormai troppo tardi, e mi chiedi perché ti rispondo che è divertente”. Amici maschietti del blog, non prestatevi a questi giochi, perché, sono certo che lo sapete già, non esiste, in terra, in mare, in aria, una singola, semplice, onesta risposta che possa soddisfare la bulimia emotiva di una tipa. Qualunque cosa rispondiate, che siate sinceri o meno, creativi o pragmatici, leccapiedi o cuor di pietra, quella risposta a non importa quale domanda di una tipa, non andrà mai bene, o quantomeno bene come lei voleva. Al massimo, vincete una risposta tipo “sì però”. Se siete esperti e fortunati. Quindi non vi imbarcate in questi giochi, servono solo a far venire il fegato marcio a voi e a gonfiare l’ego della ragazza. Una volta, quando un’altra ragazza con cui sono stato mi chiese “Ste, posso farti una domanda?”, terrorizzato dalla domanda risposi: “Tesoro, scusami se sono poco educato ma ti rispondo con un’altra domanda: questa domanda HA una risposta possibile che ti vada bene? Ha una via d’uscita? Perché se non ce l’ha, allora non farmela”. Kazam – tipa 3 a 0. Scusate la divagazione.
La prima domanda che le posi, semplice e quasi banale, fu: “Qual è la mia band preferita?”. Siccome in quel periodo stavo ascoltando abbastanza ossessivamente la canzone Empty Walls di Serj Tankian in versione orchestrata con la sinfonica di Auckland, la risposta quasi immediata della ragazza fu “System of a Down”.
Grave errore.
Il mio gruppo preferito sono gli Iron Maiden. Praticamente la mia band di riferimento dal 1999. Ma era chiaro che per lei, e sia chiaro, non lo dico con tono d’accusa, tutt’altro, siccome ascoltavo Empty Walls, allora, siccome quello che vale è hic et nunc, allora la risposta era SOAD.
Peraltro, quella domanda fu particolarmente interessante perché poi cercammo, invero con successo, di definire l’espressione “gruppo preferito”. Il risultato fu veramente bello, tant’è che lo ricito ancora, dato che definimmo “gruppo preferito” quella band, formazione o musicista singolo a cui, a prescindere dal tempo e dallo spazio, si torna. In quel periodo non ascoltavo gli Iron da tempo, ma ora che scrivo ho su Winamp “Powerslave”, album meraviglioso che consiglio a tutti. Torno agli Iron perché sono la mia band preferita, torno a Empty Walls perché è una canzone che mi piace. La differenza è abissale.
Il senso di questo aneddoto sta nello hic et nunc. Qui ed ora. Spesso si vede nella società che ci circonda l’idolatria indefessa e mai nascosta dello hic et nunc. Ne avevo parlato diffusamente nel post dell’Onda Laterale intitolato “La dittatura del Carpe Diem”, ma in questo caso le nuances sono leggermente diverse. Se quando parlavo del Carpe Diem mi riferivo ad un principio agente che alberga soave in ognuno di noi e che è mosso a seconda delle necessità e della volontà secondo dei paradigmi sociali assunti a metodo, tali per cui bisogna agire qui ed ora senza badare troppo al futuro e soprattutto evitando di speculare, in questo caso inteso come pensare al futuro, manco questa azione fosse untrice di coscienza collettiva, in questo frangente parlo di un altro principio, mi azzarderei a dire res iudicandi, ossia quella parte di noi che elabora le cose che conosciamo e dà loro un valore, assoluto o meno, quantomeno un riferimento nel caso ci trovassimo a dover tornare a pensare circa quel cotal argomento. In altri termini, vediamo una cosa, la giudichiamo, e quel giudizio lo teniamo da conto nel caso ci trovassimo in un’altra occasione a ritrattare quello stesso oggetto di discussione, magari usandolo come termine di paragone con qualcos’altro. Ed ecco che salta fuori, felice e beata, nella nostra cara società attuale, stavolta veramente hic et nunc, l’ossessione hipsteristica, in questo caso definita come la memoria del pesce rosso.
Quante volte vi è capitato di dire, e non lo dico in tono provocatorio, sia chiaro, è solo una proposta di confronto, “questa band è la migliore band EVAAAAHH**”?
Si accende la radio, si ascolta una musichina, piace veramente, si scarica l’album, si ascolta, piace ancor di più, “è la miglior band di sempre, ha un posto nel mio cuore, adesso metto il mi piace su feisbuc, li seguo su twitter, leggo uichipidia anche in tedesco per apprendere tutto lo scibile e le curiosità più morbose su di loro, poi pagina ufficiale per vedere concerti, prenotare biglietti e comprare dalla sciarpina alla hoodie autografati dal batterista e consorte, tanto che ci sono penso ad un tatuaggio del secondo nome del bassista, anche se è Evaristo, cazzi e stramazzi e intanto mi scarico via torrent la discografia completa a 320 kb/s inclusi video, bootleg e video porno girati con Carmen Elektra”. Giusto per stare sereni.
Quello contro cui mi scaglio con questa successione è la banalità dei superlativi. Oggigiorno, ed è sufficiente darsi un’occhiata attorno, tutto passa dal nulla siderale o vuoto pneumatico al meglio che la nostra società abbia prodotto. Raramente vedi crescita, sviluppo, sforzo, passione. Ad un certo punto si impone alle turme sociali un nuovo termine di paragone al superlativo. Questo, hic et nunc, è il massimo. E si badi, può essere una band come un regista, uno scrittore o un cuoco.
Cuochi. Imperversano come coboldi su ogni rete televisiva nazionale ed internazionale. Una volta stavano in cucina, ora stanno in tivvù. Cuochi. Io le loro polpettedemmerda non le mangerò mai.
Come si autosostiene un sistema che ci spaccia solo superlativi? Semplice, con la memoria del pesce rosso. Invero con questa espressione mi riferisco a diversi elementi, tutti importanti e soprattutto concomitanti in quell’unico pastone che produce ricordi non più longevi di una manciata di secondi. Vediamoli rapidamente, per essere pronti a dimenticarcene fra poco.
Primo elemento: il filoneismo. Termine coniato dal mio professore di Biblioteconomia a Torino, è il termine più bello EVAAAHHH. Qualcosa di nuovo entra nelle nostre vite? Un oggetto, una persona, una musica? È bello. È bravo. È giusto. È il meglio a cui si potesse aspirare. È un superlativo. Non pensate, come sicuramente molti di voi stanno facendo in questo momento, questo magari vale per te, mica per me. Abbiamo tutti presente le file di persone a comprare l’ultimo I-pad? A spendere strafottuti trentordicimila euro per una roba buona solo per giocare a Angry Birds? Ci rendiamo conto che è un fenomeno sociale rilevante delle società occidentali del XXI secolo? Allora ho ragione. La novità è ormai un principio motore. C’è un nuovo gruppo in giro nell’ambito del sottogenere underground delle cantine di Newcastle-upon-Tyne? Sarà bellissimo sicuramente, ma soprattutto quello che c’era prima ormai è...
Secondo elemento: mainstream. L’ossessione hipsteristica per eccellenza. Il senso della novità si collega necessariamente alla sua caducità. Un soggetto emerge nella scena pubblica perché costituisce una novità e appena è nelle condizioni di poter dire qualcosa gli viene sottratto il diritto di parola perché ormai è mainstream e schiavo del ventre delle masse e del portafogli delle etichette. Una band viene ascoltata da più di quella mezza dozzina di persone a cui al massimo ha diritto per rimanere nel Pantheon delle novità degne di nota e mantenere una sanzione di accettabilità nei confronti dell’universo filoneista? Via. Non è più la migliore band EVAAAAHHH. Bisogna aspettare al massimo il prossimo Mi-Ami per conoscerne qualcuna di migliore.
Terzo elemento: la bulimia. Il mio modesto parere in merito all’evoluzione dei gusti e delle scelte di consumo musicale è speculare alla considerazione che mi sono fatto della società attuale, specialmente la microsocietà dei più giovani, visto che siamo sempre meno anche se uno rimane giovane fino almeno ai 35 anni a meno che non si sia sposato.
Sembrerò Pasolini ma non lo sono. Pasolini peraltro mi stava abbastanza sul cazzo e i suoi film mi hanno fatto evacuare abbondantemente.
La nostra società giovane è una società senza riferimenti. Questo mi sembra abbastanza palese. In passato i riferimenti erano politici, ideologici, anche musicali, artistici in senso più lato, anzi era quasi necessario affidarsi, o meglio associarsi, ad alcuni riferimenti pena l’esclusione sociale. Riferimenti erano anche contro-riferimenti, come per esempio la necessità di distruggere i Sancta Sanctorum precedenti, era la positività della lotta intergenerazionale, noi giovani contro voi vecchî, noi nuovo per trovare legittimità all’esistenza dobbiamo sbarazzarci via del vecchio mondo, con buona pace nostra nel caso gli antenati, in questo funereo e fondativo gioco sociale, ci lasciano lo spazio perché il mondo è di chi rimarrà più tempo, quindi facciamoci forza, tentiamo di prenderci il mondo che quando vediamo che ce la stiamo facendo, se almeno ai vecchî è rimasta un po’ di onestà intellettuale, sapranno dire ecco, ora è vostro, trattatelo bene.
Tutto questo non si vede almeno dagli anni ’80. Abbiamo trovato la nostra dimensione negli agî del benessere costruito dai nostri vecchî, non abbiamo distrutto né ricreato niente perché andava – e va – bene così; mentre i riferimenti politici, artistici, intellettuali morivano uno alla volta noi ci baloccavamo con Pacman ed il motorino, e adesso abbiamo buon gioco a baloccarci ancora con faccialibro e Favio Bolo.
E sia detto per inciso, ora che il nostro magico mondo crolla anche fragorosamente sotto i colpi della crisi dell’economia monetarista, noi non sappiamo far altro che far la fila a comprare l’ultimo Angry Birds’ device al negozio Apple più vicino.
Qual è il vantaggio di una generazione senza riferimenti? Che in qualche misura, probabilmente perché l’inconscio vuole la sua libbra di carne, li si cerca. Nuovi riferimenti, nuovi scoglî a cui aggrapparsi, nuove ultime spiagge nel caso in cui lo smarrimento diventi da condizione esecrabile ed indesiderata lo status quo di un’infima esistenza. E allora? Beh, credo che dopo la caduta del Muro e la fine delle ideologie, il primo nuovo riferimento sia diventato autenticamente il denaro. Compro quindi esisto, e provate a dirmi che non è vero. E siamo altresì coscienti del valore consolatorio dello shopping, e per una volta non dirò che è prerogativa femminile, semplicemente uomini e donne comprano cose diverse, ma comprano uguale.
Un uomo non riuscirà mai a capire perché la sua tipa ha una scarpiera con due o tre dozzine di scarpe e altrettante borse in un cesto sotto il letto; una donna non capirà mai a fondo il fascino di un motore o di un hardware da centinaia di euro o un biglietto al Giuseppe Meazza al primo anello rosso. Fine del discorso.
Ed infine, la (sub)coscienza di non aver riferimenti induce all’appiglio a qualunque cosa abbia, realmente o meno, un valore per noi stessi. Da cui la facile ed immediata bulimia. È gioco troppo facile accettare praticamente acriticamente qualsiasi cosa funga da richiamo al nostro ventre.
Soprattutto se poi ci sono turme e turme di marketers disposti a svenderti come superlativo qualunque cosa sia appetibile. Noi e il marketing siamo sui due lati della stessa medaglia, e quando ci giriamo per dare la colpa all’altro ritroviamo solo noi stessi.
In sostanza, perché una band diventa la più grande band EVAAAAHHH per non più di un mese o giù di lì? Semplice, perché il valore della sua novità è tanto importante quanto caduco (filoneismo), perché in un tempo ragionevolmente breve diventa inflazionata e di conseguenza esecrabile (mainstream) ed infine perché la nostra fame di riferimenti e valori è così corposa che, come pantagruelici nanetti, finito di divorare una novità ci lanciamo subito su di un’altra (bulimia). E tronfî, ce la raccontiamo che è giusto così.
Concluderò dunque con un esempio e con una richiesta, proprio a voi, cari astanti dell’Onda. La mia impressione è che praticamente dagli anni 2000 o giù di lì l’industria musicale non abbia ammesso che nessun gruppo sopravvivesse per più di una manciata d’anni, tempo peraltro suddiviso in: primi 2-3 mesi, impennata dal nulla e boom di interesse; altri 2-3 mesi di mantenimento fino al crollo repentino e al galleggiamento su di una notorietà minima; un anno in cui nessuno si caga più l’artista, uscita del secondo album, intervista a Tropical Pizza ed estinzione quasi completa.
Così su due piedi, fuori da questo schema rientrano Amy Winehouse, che da brava cialtrona ha pisciato in testa alla vita e si è fatta fuori da sola, la Balotelli della musica; Lady Gaga, un fenomeno da baraccone valida musicalmente come il due di bastoni a briscola quando manda coppe; David Guetta, uno che sostiene che vuole rendere la musica house più popolare del rock, ed ho detto tutto. Negli anni ’90 almeno i tempi erano più dilatati, alcune band rimanevano importanti almeno per qualche anno, si pensi al punk rock dei Green Day o degli Offspring, c’erano ancora i mostri sacri, pensiamo in Italia a Ligabue o gli Articolo 31; Elio e le Storie Tese, che le canzoni più brutte che abbiano mai scritto sono sempre state quelle portate a Sanremo, ma musicalmente sono sublimi sotto ogni punto di vista; e passiamo ai decenni antecedenti, quando una band come i Boston erano detti di rock mainstream, e immaginiamoci adesso cosa significherebbe una definizione del genere, e Madonna, e Michael Jackson, e i CCCP, e i Maiden, i Metallica, e indietro ancora, Beatles, Rolling, Led Zeppelin, Deep Purple, e potremmo fare notte a citare mostri sacri. E quindi vi chiedo, cari astanti, nel Pantheon della Musica, qualcuno avrebbe il coraggio di mettere una band emersa dopo il 1998 a fianco agli ultimi quattro nomi sopra citati? Io no. Perché se tutte le band sono le migliori band EVAAAAAHH probabilmente allora nessuna lo sarà sul serio.
Ed il senso di tutto questo è appunto la memoria del pesce rosso: ci si riesce ad ingannare musicalmente, artisticamente, politicamente, culturalmente perché non abbiamo memoria di noi stessi, dei nostri riferimenti, ci dimentichiamo chi eravamo e cosa volevamo e soprattutto ci dimentichiamo che cosa ha veramente valore, sempre che non ammettiamo che quello che ha veramente valore è transeunte come tutto il resto. Forse dovremmo ripensarci un attimo, ricostruire dei riferimenti adeguati e adatti a noi, insomma, rimetterci in gioco. E invece che pensare come pesci rossi, mangiarli un po’, che il pesce la memoria la aiuta.

*Weltanschauung: in tedesco, "Visione del Mondo"
**EVAAAHHH non è un moccolo italico relativo al peccato originale ma la traslitterazione della fonetica di “ever”, in inglese.

Kazam82

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