Disclaimer:
il tema di questo post, o sarebbe meglio dire insieme di
considerazioni, mi è stato suggerito da un amico. Trovandomi
d’accordo con lui praticamente su tutto ed essendo il tema
sufficientemente speziato, non potevo non cogliere la palla al balzo
e sviluppare un’articolazione più densa della conversazione che si
svolse sulla sua auto mentre andavamo a bere gran copia di birra al
Birrificio di Lambrate. Devo dunque dei ringraziamenti a lui e ne
approfitto per augurarvi una buona lettura.
Delle
due una: o il tempo, negli ultimi anni, corre più rapidamente,
oppure le nostre facoltà di comprensione, assimilazione ed
apprezzamento stanno degenerando nella voracità bulimica ascrivibile
all’archetipo di homo
consumandi.
La
Weltanschauung*
della società comune, me incluso, e sono certo anche numerosi di voi
stimati astanti, ha teso allo stravolgimento se si considerano gli
ultimi, diciamo, vent’anni. E noialtri fieri e pasciuti ne siamo
forieri anche con una punta di orgoglio, in qualche caso. Capita
anche a me, nonostante voglia e tenti fino allo stremo di cercare di
essere un po’ in là, attaccato ai miei Sancta
Sanctorum, i
miei riferimenti esistenziali, quasi riposti in Iperuranio, modelli
sublimi di un mondo che sublime non è, ma che lo diventa se
applichiamo i nostri modelli culturali, sociali, ludici ad esso
stesso. Si potrebbe dire quasi che il mondo lo creiamo ogni giorno a
partire dai nostri riferimenti personali, e per definizione allora
esistono miliardi di mondi possibili, anzi, reali e tangibili,
semplicemente uno per ogni persona che vive su questa terra, e sogna.
Questa considerazione mi fa venire in mente un aneddoto, per cui un
gruppo di esploratori portoghesi vattelapesca in quale Anno
Domini,
giunto nel cuore di tenebra delle foreste indonesiane, incontra degli
indigeni, dei primitivi. Costoro, dopo l’evidente primo momento di
paura e tensione, perché non esiste niente di più crudele e feroce
che l’uomo stesso, avvicinatisi al gruppo di europei, mettono per
prima cosa le mani in faccia ai nuovi arrivati, con altrettanto
evidente stupore degli Heróis
do Mar,
perché vedendo esseri umani bianchi, e non contemplando nella loro
visione del mondo il fatto che altri esseri umani potessero avere un
colore della pelle diverso da quello ambrato tipico dei locali,
cercavano di togliere loro quel cerone rituale che si dovevano esser
messi per chissà quale ancestrale devozione. Il mondo degli uomini
delle foreste indonesiane era forgiato da loro stessi escludendo a
priori che esistesse un colore della pelle diverso dal caramello.
Sicuramente lo shock culturale deve essere stato forte. Ma non è di
questo che volevo parlarvi.
Non
volevo parlarvi di aborigeni, colori della pelle, viaggi verso
strani, nuovi mondi, né di Iperuranio e via dicendo. Volevo parlarvi
di musica. E territorî circostanti.
Un
buon paio di anni fa mi trovavo con la ragazza con cui stavo in quel
periodo, in quel di Colonia, passeggiando per i sobborghi antistanti
al centro città in direzione dell’università. Decidemmo di fare
un gioco: farci delle domande a vicenda per vedere se ci conoscevamo
veramente, visto che erano quasi tre anni che stavamo assieme.
Sia
fatta una considerazione, ovviamente in pieno mio stile, altrimenti
detto con una non velata dose concentrata di misoginia. Andai ad
imbarcarmi in un gioco tremendamente amato dal genere femminile,
ossia il “ti metto in croce in 3 facili step e non te ne accorgi
neanche, e quando te ne accorgi, ormai troppo tardi, e mi chiedi
perché ti rispondo che è divertente”. Amici maschietti del blog,
non prestatevi a questi giochi, perché, sono certo che lo sapete
già, non esiste, in terra, in mare, in aria, una singola, semplice,
onesta risposta che possa soddisfare la bulimia emotiva di una tipa.
Qualunque cosa rispondiate, che siate sinceri o meno, creativi o
pragmatici, leccapiedi o cuor di pietra, quella risposta a non
importa quale domanda di una tipa, non andrà mai bene, o quantomeno
bene come lei voleva. Al massimo, vincete una risposta tipo “sì
però”. Se siete esperti e fortunati. Quindi non vi imbarcate in
questi giochi, servono solo a far venire il fegato marcio a voi e a
gonfiare l’ego della ragazza. Una volta, quando un’altra ragazza
con cui sono stato mi chiese “Ste, posso farti una domanda?”,
terrorizzato dalla domanda risposi: “Tesoro, scusami se sono poco
educato ma ti rispondo con un’altra domanda: questa domanda HA una
risposta possibile che ti vada bene? Ha una via d’uscita? Perché
se non ce l’ha, allora non farmela”. Kazam – tipa 3 a 0.
Scusate la divagazione.
La
prima domanda che le posi, semplice e quasi banale, fu: “Qual è la
mia band preferita?”. Siccome in quel periodo stavo ascoltando
abbastanza ossessivamente la canzone Empty
Walls di
Serj Tankian in versione orchestrata con la sinfonica di Auckland, la
risposta quasi immediata della ragazza fu “System of a Down”.
Grave
errore.
Il
mio gruppo preferito sono gli Iron Maiden. Praticamente la mia band
di riferimento dal 1999. Ma era chiaro che per lei, e sia chiaro, non
lo dico con tono d’accusa, tutt’altro, siccome ascoltavo Empty
Walls,
allora, siccome quello che vale è hic
et nunc,
allora la risposta era SOAD.
Peraltro,
quella domanda fu particolarmente interessante perché poi cercammo,
invero con successo, di definire l’espressione “gruppo
preferito”. Il risultato fu veramente bello, tant’è che lo
ricito ancora, dato che definimmo “gruppo preferito” quella band,
formazione o musicista singolo a cui, a prescindere dal tempo e dallo
spazio, si torna. In quel periodo non ascoltavo gli Iron da tempo, ma
ora che scrivo ho su Winamp “Powerslave”, album meraviglioso che
consiglio a tutti. Torno agli Iron perché sono la mia band
preferita, torno a Empty Walls perché è una canzone che mi piace.
La differenza è abissale.
Il
senso di questo aneddoto sta nello hic
et nunc. Qui
ed ora. Spesso si vede nella società che ci circonda l’idolatria
indefessa e mai nascosta dello hic
et nunc. Ne
avevo parlato diffusamente nel post dell’Onda Laterale intitolato
“La dittatura del Carpe
Diem”, ma
in questo caso le nuances
sono leggermente diverse. Se quando parlavo del Carpe
Diem mi
riferivo ad un principio agente che alberga soave in ognuno di noi e
che è mosso a seconda delle necessità e della volontà secondo dei
paradigmi sociali assunti a metodo, tali per cui bisogna agire qui
ed ora senza
badare troppo al futuro e soprattutto evitando di speculare, in
questo caso inteso come pensare al futuro, manco questa azione fosse
untrice di coscienza collettiva, in questo frangente parlo di un
altro principio, mi azzarderei a dire res
iudicandi,
ossia quella parte di noi che elabora le cose che conosciamo e dà
loro un valore, assoluto o meno, quantomeno un riferimento nel caso
ci trovassimo a dover tornare a pensare circa quel cotal argomento.
In altri termini, vediamo una cosa, la giudichiamo, e quel giudizio
lo teniamo da conto nel caso ci trovassimo in un’altra occasione a
ritrattare quello stesso oggetto di discussione, magari usandolo come
termine di paragone con qualcos’altro. Ed ecco che salta fuori,
felice e beata, nella nostra cara società attuale, stavolta
veramente hic
et nunc,
l’ossessione hipsteristica, in questo caso definita come la memoria
del pesce rosso.
Quante
volte vi è capitato di dire, e non lo dico in tono provocatorio, sia
chiaro, è solo una proposta di confronto, “questa band è la
migliore band EVAAAAHH**”?
Si
accende la radio, si ascolta una musichina, piace veramente, si
scarica l’album, si ascolta, piace ancor di più, “è la miglior
band di sempre, ha un posto nel mio cuore, adesso metto il mi piace
su feisbuc, li seguo su twitter, leggo uichipidia anche in tedesco
per apprendere tutto lo scibile e le curiosità più morbose su di
loro, poi pagina ufficiale per vedere concerti, prenotare biglietti e
comprare dalla sciarpina alla hoodie autografati dal batterista e
consorte, tanto che ci sono penso ad un tatuaggio del secondo nome
del bassista, anche se è Evaristo, cazzi e stramazzi e intanto mi
scarico via torrent la discografia completa a 320 kb/s inclusi video,
bootleg e video porno girati con Carmen Elektra”. Giusto per stare
sereni.
Quello
contro cui mi scaglio con questa successione è la banalità dei
superlativi. Oggigiorno, ed è sufficiente darsi un’occhiata
attorno, tutto passa dal nulla siderale o vuoto pneumatico al meglio
che la nostra società abbia prodotto. Raramente vedi crescita,
sviluppo, sforzo, passione. Ad un certo punto si impone alle turme
sociali un nuovo termine di paragone al superlativo. Questo, hic
et nunc, è
il massimo. E si badi, può essere una band come un regista, uno
scrittore o un cuoco.
Cuochi.
Imperversano come coboldi su ogni rete televisiva nazionale ed
internazionale. Una volta stavano in cucina, ora stanno in tivvù.
Cuochi. Io le loro polpettedemmerda non le mangerò mai.
Come
si autosostiene un sistema che ci spaccia solo superlativi? Semplice,
con la memoria del pesce rosso. Invero con questa espressione mi
riferisco a diversi elementi, tutti importanti e soprattutto
concomitanti in quell’unico pastone che produce ricordi non più
longevi di una manciata di secondi. Vediamoli rapidamente, per essere
pronti a dimenticarcene fra poco.
Primo
elemento: il filoneismo. Termine coniato dal mio professore di
Biblioteconomia a Torino, è il termine più bello EVAAAHHH. Qualcosa
di nuovo entra nelle nostre vite? Un oggetto, una persona, una
musica? È bello. È bravo. È giusto. È il meglio a cui si potesse
aspirare. È un superlativo. Non pensate, come sicuramente molti di
voi stanno facendo in questo momento, questo magari vale per te, mica
per me. Abbiamo tutti presente le file di persone a comprare l’ultimo
I-pad? A spendere strafottuti trentordicimila euro per una roba buona
solo per giocare a Angry Birds? Ci rendiamo conto che è un fenomeno
sociale rilevante delle società occidentali del XXI secolo? Allora
ho ragione. La novità è ormai un principio motore. C’è un nuovo
gruppo in giro nell’ambito del sottogenere underground delle
cantine di Newcastle-upon-Tyne? Sarà bellissimo sicuramente, ma
soprattutto quello che c’era prima ormai è...
Secondo
elemento: mainstream.
L’ossessione hipsteristica per eccellenza. Il senso della novità
si collega necessariamente alla sua caducità. Un soggetto emerge
nella scena pubblica perché costituisce una novità e appena è
nelle condizioni di poter dire qualcosa gli viene sottratto il
diritto di parola perché ormai è mainstream
e schiavo
del ventre delle masse e del portafogli delle etichette. Una band
viene ascoltata da più di quella mezza dozzina di persone a cui al
massimo ha diritto per rimanere nel Pantheon delle novità degne di
nota e mantenere una sanzione di accettabilità nei confronti
dell’universo filoneista? Via. Non è più la migliore band
EVAAAAHHH. Bisogna aspettare al massimo il prossimo Mi-Ami per
conoscerne qualcuna di migliore.
Terzo
elemento: la bulimia. Il mio modesto parere in merito all’evoluzione
dei gusti e delle scelte di consumo musicale è speculare alla
considerazione che mi sono fatto della società attuale, specialmente
la microsocietà dei più giovani, visto che siamo sempre meno anche
se uno rimane giovane fino almeno ai 35 anni a meno che non si sia
sposato.
Sembrerò
Pasolini ma non lo sono. Pasolini peraltro mi stava abbastanza sul
cazzo e i suoi film mi hanno fatto evacuare abbondantemente.
La
nostra società giovane è una società senza riferimenti. Questo mi
sembra abbastanza palese. In passato i riferimenti erano politici,
ideologici, anche musicali, artistici in senso più lato, anzi era
quasi necessario affidarsi, o meglio associarsi, ad alcuni
riferimenti pena l’esclusione sociale. Riferimenti erano anche
contro-riferimenti, come per esempio la necessità di distruggere i
Sancta
Sanctorum precedenti,
era la positività della lotta intergenerazionale, noi giovani contro
voi vecchî, noi nuovo per trovare legittimità all’esistenza
dobbiamo sbarazzarci via del vecchio mondo, con buona pace nostra nel
caso gli antenati, in questo funereo e fondativo gioco sociale, ci
lasciano lo spazio perché il mondo è di chi rimarrà più tempo,
quindi facciamoci forza, tentiamo di prenderci il mondo che quando
vediamo che ce la stiamo facendo, se almeno ai vecchî è rimasta un
po’ di onestà intellettuale, sapranno dire ecco, ora è vostro,
trattatelo bene.
Tutto
questo non si vede almeno dagli anni ’80. Abbiamo trovato la nostra
dimensione negli agî del benessere costruito dai nostri vecchî, non
abbiamo distrutto né ricreato niente perché andava – e va –
bene così; mentre i riferimenti politici, artistici, intellettuali
morivano uno alla volta noi ci baloccavamo con Pacman ed il motorino,
e adesso abbiamo buon gioco a baloccarci ancora con faccialibro e
Favio Bolo.
E
sia detto per inciso, ora che il nostro magico mondo crolla anche
fragorosamente sotto i colpi della crisi dell’economia monetarista,
noi non sappiamo far altro che far la fila a comprare l’ultimo
Angry Birds’ device al negozio Apple più vicino.
Qual
è il vantaggio di una generazione senza riferimenti? Che in qualche
misura, probabilmente perché l’inconscio vuole la sua libbra di
carne, li si cerca. Nuovi riferimenti, nuovi scoglî a cui
aggrapparsi, nuove ultime spiagge nel caso in cui lo smarrimento
diventi da condizione esecrabile ed indesiderata lo status
quo di
un’infima esistenza. E allora? Beh, credo che dopo la caduta del
Muro e la fine delle ideologie, il primo nuovo riferimento sia
diventato autenticamente il denaro. Compro
quindi esisto,
e provate a dirmi che non è vero. E siamo altresì coscienti del
valore consolatorio dello shopping, e per una volta non dirò che è
prerogativa femminile, semplicemente uomini e donne comprano cose
diverse, ma comprano uguale.
Un
uomo non riuscirà mai a capire perché la sua tipa ha una scarpiera
con due o tre dozzine di scarpe e altrettante borse in un cesto sotto
il letto; una donna non capirà mai a fondo il fascino di un motore o
di un hardware da centinaia di euro o un biglietto al Giuseppe Meazza
al primo anello rosso. Fine del discorso.
Ed
infine, la (sub)coscienza di non aver riferimenti induce all’appiglio
a qualunque cosa abbia, realmente o meno, un valore per noi stessi.
Da cui la facile ed immediata bulimia. È gioco troppo facile
accettare praticamente acriticamente qualsiasi cosa funga da richiamo
al nostro ventre.
Soprattutto
se poi ci sono turme e turme di marketers disposti a svenderti come
superlativo qualunque cosa sia appetibile. Noi e il marketing siamo
sui due lati della stessa medaglia, e quando ci giriamo per dare la
colpa all’altro ritroviamo solo noi stessi.
In
sostanza, perché una band diventa la più grande band EVAAAAHHH per
non più di un mese o giù di lì? Semplice, perché il valore della
sua novità è tanto importante quanto caduco (filoneismo), perché
in un tempo ragionevolmente breve diventa inflazionata e di
conseguenza esecrabile (mainstream)
ed infine perché la nostra fame di riferimenti e valori è così
corposa che, come pantagruelici nanetti, finito di divorare una
novità ci lanciamo subito su di un’altra (bulimia). E tronfî, ce
la raccontiamo che è giusto così.
Concluderò
dunque con un esempio e con una richiesta, proprio a voi, cari
astanti dell’Onda. La mia impressione è che praticamente dagli
anni 2000 o giù di lì l’industria musicale non abbia ammesso che
nessun gruppo sopravvivesse per più di una manciata d’anni, tempo
peraltro suddiviso in: primi 2-3 mesi, impennata dal nulla e boom di
interesse; altri 2-3 mesi di mantenimento fino al crollo repentino e
al galleggiamento su di una notorietà minima; un anno in cui nessuno
si caga più l’artista, uscita del secondo album, intervista a
Tropical Pizza ed estinzione quasi completa.
Così
su due piedi, fuori da questo schema rientrano Amy Winehouse, che da
brava cialtrona ha pisciato in testa alla vita e si è fatta fuori da
sola, la Balotelli della musica; Lady Gaga, un fenomeno da baraccone
valida musicalmente come il due di bastoni a briscola quando manda
coppe; David Guetta, uno che sostiene che vuole rendere la musica
house più popolare del rock, ed ho detto tutto. Negli anni ’90
almeno i tempi erano più dilatati, alcune band rimanevano importanti
almeno per qualche anno, si pensi al punk rock dei Green Day o degli
Offspring, c’erano ancora i mostri sacri, pensiamo in Italia a
Ligabue o gli Articolo 31; Elio e le Storie Tese, che le canzoni più
brutte che abbiano mai scritto sono sempre state quelle portate a
Sanremo, ma musicalmente sono sublimi sotto ogni punto di vista; e
passiamo ai decenni antecedenti, quando una band come i Boston erano
detti di rock
mainstream,
e immaginiamoci adesso cosa significherebbe una definizione del
genere, e Madonna, e Michael Jackson, e i CCCP, e i Maiden, i
Metallica, e indietro ancora, Beatles, Rolling, Led Zeppelin, Deep
Purple, e potremmo fare notte a citare mostri sacri. E quindi vi
chiedo, cari astanti, nel Pantheon della Musica, qualcuno avrebbe il
coraggio di mettere una band emersa dopo il 1998 a fianco agli ultimi
quattro nomi sopra citati? Io no. Perché se tutte le band sono le
migliori band EVAAAAAHH probabilmente allora nessuna lo sarà sul
serio.
Ed
il senso di tutto questo è appunto la memoria del pesce rosso: ci si
riesce ad ingannare musicalmente, artisticamente, politicamente,
culturalmente perché non abbiamo memoria di noi stessi, dei nostri
riferimenti, ci dimentichiamo chi eravamo e cosa volevamo e
soprattutto ci dimentichiamo che cosa ha veramente valore, sempre che
non ammettiamo che quello che ha veramente valore è transeunte come
tutto il resto. Forse dovremmo ripensarci un attimo, ricostruire dei
riferimenti adeguati e adatti a noi, insomma, rimetterci in gioco. E
invece che pensare come pesci rossi, mangiarli un po’, che il pesce
la memoria la aiuta.
*Weltanschauung: in tedesco, "Visione del Mondo"
**EVAAAHHH
non è un moccolo italico relativo al peccato originale ma la
traslitterazione della fonetica di “ever”, in inglese.
Kazam82
Kazam82
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