Google+

venerdì 28 giugno 2013

Citrullus Lanatus

Sono passati ormai due mesi da quando abbiamo dato il via a questo progetto.
Ognuno dei tre autori ha avuto occasione di scrivere due volte, escludendo le dichiarazioni d'intenti di quel fine settimana di Maggio. Tre autori, tre stili, tre registri diversi. Più o meno digeribili e assimilabili, ma si sa: il mondo è bello perché è vario.

Voi che leggete siete arrivati fin qui, cosa che in sé renderebbe raccomandabile un'accurata perizia psichiatrica, e noi che scriviamo ne siamo immensamente compiaciuti.
Alimenta il nostro ego.

Tuttavia di tanto in tanto sento ancora qualcuno domandarmi: “Sì, ma che intenzioni avete?”

venerdì 21 giugno 2013

Noi siamo Infinito.


L’introduzione al mio post di tre settimane fa recitava, un po’ per boria, un po’ per apprezzamento dell’adeguatezza, un’espressione in tedesco che mi piace particolarmente. Parlare di Dio e del mondo, espressione decisamente più magniloquente eppure definita del nostro un po’ misero più e meno, o tutto ed il contrario di tutto. Che peraltro, se tentiamo un paragone tra l’espressione corrente tedesca e l’ultima citata sopra, si potrebbero trovare affinità e si potrebbe addirittura formulare qualche parallelo, se diamo per accettabile che Dio è tutto ed il mondo il contrario di tutto, se non fosse che, citando ancora il post che scrissi in precedenza, il mondo è stato creato a immagine e somiglianza del Divino, dunque non si capirebbe perché debba essere il suo contrario. Si arriva di conseguenza ad uno stato di paradosso irriducibile, Dio ed il mondo, Sua immagine ridotta ad uno schizzo, inconciliabile col Padre, eppure prodotto del perfetto. Può il perfetto produrre l’imperfetto, eppure mantenerlo coerente con la sua origine?


Questo post parlerà di varî paradossi, anche se mi piacerebbe inventare una parola nuova, o quantomeno sperare che sia nuova, perché sono disposto a mettere la mano sul fuoco che qualcuno, in un altro tempo, luogo o dimensione l’ha già inventata, e pensare di chiamarla paraeudosso, ossia l’inconciliabilità e l’incoerenza di due semplici cose, eppure che danno luogo ad un risultato definibile come bello. D’altra parte, e chiedo scusa per la ridondanza, un’onda laterale è un semplice e immediato paraeudosso.

Ricorsivamente, ormai da qualche anno, penso a cosa sia Dio, punto di partenza fondamentale di una ricerca di chiarezza nella mia testa per risolvere, almeno dal mio punto di vista, le più banali domande che ci definiscono come essere umani: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, cosa succede quando non siamo più. Ricerca di chiarezza culminata, peraltro, in un punto di umiltà senza mezzi termini, ovverosia l’ammissione d’incapacità e d’incompetenza per poter procedere alla risoluzione del problema, e l’asserzione convinta che non sono in grado di stabilire se Dio esiste o meno, senza per questo voler imporre questa opinione – perché credo non è – a chicchessia, acme di un percorso personale che, molto più prosaicamente, ha prodotto il risultato di una bella scomunica da parte di Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, per le risa di tutti gli astanti.
Aldilà delle opinioni dei giureconsulti di diritto canonico, ho continuato – e continuo – ad interrogarmi sulla natura del Divino, da storico, da pensatore libero, da essere umano nella sua finitezza. Se non che la risposta a cui sono approdato, invero banalissima ma splendidamente umana, è che il Divino non è nient’altro che una rappresentazione intangibile di ciò che non siamo e che, in qualche misura, vorremmo essere. Quali sono, in fondo, gli atti costitutivi di Dio nella sua declinazione monoteista? Infinito, Onnipotente, Onnipresente, Onnisciente. In fondo trovo abbastanza paradossale partire dalla nostra finitezza per giungere alla perfezione: in qualche misura se la razza umana si fosse concentrata di più sui suoi limiti e finitezze per alleviarle invece che creare una rappresentazione uguale e contraria a se stessa che finisce per comandare e decidere, forse adesso competeremmo col Capitano Kirk per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima. Ma questo è un altro discorso. E la cosa divertente è che già in questa parte di descrizione del problema, sono apparsi varî paradossi.

Dio come proiezione antipodica dell’essere umano rispetto a se stesso, in un circolo eterno in cui nessuno è se non per e nell’altro. Essere umano, finito, limitato, imperfetto, naturalmente disposto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per essere qualcosa di più, eternamente scontento del suo stato caduco, che vuole essere Dio e si scopre ogn’istante terra e cenere e argilla. Eppur non smette. La ricerca come essenza dell’essenza, la prospettiva come sogno per cui vale la pena esistere, la forma che è più carica di significato del significato stesso. Questi sono, a mio modo di vedere, i termini del problema. E non sono a noi sufficienti tutte le arti onomastiche, etimologiche e descrittorie per ottenere definizioni che aiutino a modellizzare due enti, anche astraendoli dalla realtà, senza svuotarli di significato, di sfumature, di dettagli, perché, non dimentichiamolo, per par condicio, e a maggior ragione poiché si continua a citare Dio e Dei varî, che è nei dettagli che si nasconde il Diavolo, oltre che nelle pentole, aggiungerei. E andiamo al dunque con un esercizio di logica che ha pretese ferree ma che difficilmente potrà produrre un risultato rigoroso. 

Dio, essendo proiezione umana di ciò che l’essere umano non è, è Infinito e Perfetto. Perché l’Uomo Infinito e Perfetto non è, e ragionevolmente vorrebbe esserlo. Guardando ancora una volta alla cultura tedesca, questo desiderio fu posto in essere magistralmente da Goethe nel Faust, poiché l’anelito di Faust alla perfezione nella più nobile, alta e umana delle arti, la conoscenza, era a tal punto asfissiante che, in paradosso con la sua bontà d’animo, non esitò a scendere a patti col Diavolo, con Mefistofele, altrettanto ragionevolmente l’antipode dell’uomo essendo noi nati a Immagine e Somiglianza del Divino, per ottenerla. L’Uomo dunque come essere Finito e Imperfetto. 

No

Dire dell’Uno o dell’Altro Finito e Imperfetto o Infinito e Perfetto significa unire ciò che non si può unire. Una contraddizione in termini. Vediamo cosa vogliono dire le parole Finito e Perfetto, dando per assunto che il prefisso in- indica la negazione della parola dunque non implica modificazioni sostanziali ma solo un senso uguale e contrario alla parola originaria. Finito, andando a naso e cercando un po’ in internet qualche sito utile all’analisi, rimanda al verbo latino finire, dalla parola finis, is, parola molto interessante perché al singolare significa semplicemente fine, termine, conclusione, mentre al plurale (fines, ium) significa confini, frontiere, limiti – siano essi politici o geografici, e aggiungo io morali –. L’idea che dunque suggerisce il termine Finito è qualcosa di compiuto, di concluso, di limitato perché detiene dei confini. Ciò che è finito è al punto d’arrivo, è il non plus ultra, è il risultato. E poi Perfetto. Ancora, parola di origine latina, per + factum, dove per è un prefisso per dare un senso di compimento; dunque il Perfetto è un “fatto compiuto”, un elemento concluso, un risultato, un non plus ultra

Il paradosso, quello vero, quello che si nasconde nei dettagli, nella magia delle parole, è che due termini contrarî sono sinonimi. Certo, probabilmente un vero linguista sosterrà impettito che sto dicendo un mucchio di stupidaggini, che l’analisi è superficiale, che non c’è rigore scientifico. Tutto vero. Cerchiamo, però, di leggere quanto scrivo con una punta di magia e romanticismo. Al peggio, si sorride. Si sorride ad immaginare che ciò che è concluso sia il massimo grado, sia la perfezione, sia il non plus ultra, e che abbia in sé quelle caratteristiche che si cercano nel suo contrario, nell’inconcluso e inconcludente, nel Perfetto che, in fondo, Perfetto non è o non vuole essere. Il Finito trova la sua Perfezione nell’attimo in cui il principio agente che lo muove muore, fissandolo nell’eternità come immutabile, come costante, come Perfetto perché accaduto. Non è un caso che la parola perfetto sia usata in tantissime lingue per indicare un tempo passato, ossia un tempo verbale in cui l’azione è iniziata e conclusa nel passato, un’azione che è fissata per sempre in un tempo che non è più. E questa definizione mi piace molto per arrivare al contrario delle due parole finora analizzate: Infinito e Imperfetto. Infinito, termine uguale e contrario a Finito, impensabile, irrazionale, inumano, paradigma vero di tanti verbi in tante lingue. Infinito è senza principio né conclusione, è privo di un principio agente che lo muove perché è in sé il principio agente, perché comunica significato. È la liberazione dai vincoli terreni e dalle finitudini che sono principio di definizione dell’essere umano. E Imperfetto. Inconcluso, dinamico, attivo eppur vittima di quel principio agente che vorrebbe dominare, o essere. Ritornando al punto verbale, Imperfetto è ciò che viene da un passato che ci lambisce ancora e coi denti e con le unghie tenta di arrivare fino a noi, nella sottile linea rossa che chiamiamo presente, solo per dirci che è vivo, per metterci il fiato sul collo, per comunicarci una relazione. È sinonimo un po’ claudicante d’Infinito.

Può Dio essere Infinito e Perfetto? Può l’uomo essere Finito e Imperfetto? 

Non sono nessuno per asserire qualcosa che abbia un vago retrogusto di certezza in merito a queste domande. Ma quello che credo, umanamente, frutto incompiuto di tante ore di pensiero, è che Noi siamo Infinito. Questo, in fondo, è il vero paraeudosso. Noi siamo Infinito perché siamo perfetti, stavolta nel senso di limitati, siamo carne, Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris, torneremo polvere. Ed è questa limitatezza, questa caducità a toglierci i limiti di cui siamo ossessionati, e che per sorte a malapena riconosciamo. Noi siamo Perfetti perché siamo Perfettibili. Dio non ha senso per noi esseri umani perché è il risultato maldestro di un paradosso. Che senso ha qualcosa che riunisce in sé semplicemente tutto? Se si è tutto, non si è più niente, perché non si possiede più un significato, avendoli già tutti. L’essere umano, per fortuna, non è tutto, né niente. È uno. Nella nostra claudicante andatura troviamo ragioni per dare un significato all’oggi e al domani. Noi, nonostante i nostri appariscenti limiti, ci siamo ancora, in barba a tutti quelli che sostengono magniloquenti che abbiamo sempre fatto di tutto per autodistruggerci. Noi diamo un senso all’oggi perché abbiamo un desiderio per il domani, perché sappiamo che il domani avrà un significato, sappiamo che domani sarà un giorno migliore, perché questa è la nostra missione. Questo è il senso dell’essere Perfettibili. Usando una formula matematica, si direbbe che noi siamo un limite, gioco di parole con quanto scritto fino ad ora abbastanza simpatico, un limite che tende ad infinito, senza incontrarlo mai, ma che quantomeno ci prova. Ecco, noi siamo quella tensione all’Infinito che ci definisce come umani. Perché in fondo, il nome della nostra specie ci dice tutto di noi, o quantomeno il sufficiente: homo sapiens, perché essere uomini non è sufficiente, ma uomini legati alla conoscenza ed alla sapienza è più giusto, oltretutto perché l’aggettivo qualificativo sapiens è anche participio presente del verbo săpĭo, săpĕre, sapere, elemento interessante perché ci comunica qualcos’altro in più, ossia la tensione al Perfetto di cui sopra, l’azione già presente ed in essere hic et nunc. Perché noi siamo noi in quanto sapienti, in quanto conoscenza. 

Noi siamo Infinito, perché il moto che ci domina verso l’irraggiungibile ci rende eterni.

Questo è il nostro senso.

E non sono sicuro di questo, nemmeno se fossi Dio.   

lunedì 17 giugno 2013

La dittatura del Carpe Diem

Disclaimer: questo post è stato pubblicato in data 31 Maggio 2013; a causa di un problema tecnico, la pubblicazione originale è andata perduta. Ci scusiamo per l'inconveniente e vi auguriamo una buona lettura o rilettura. [Kazam82]


Sorseggio un caffè, sto di fronte ad uno schermo cangiante, finisco, come al solito, per pensare über Gott und die Welt, su Dio e sul mondo, come si direbbe in buon tedesco.
In altri termini, è il più classico momento delle seghe mentali, quello in cui si ricostruisce un mondo che, per un verso o per un altro, non ci aggrada fino in fondo. Sia detto di passaggio, beato colui che, Candide e povero di spirito, riesce ad essere felice e pasciuto del mondo in cui vive.
Ed ecco che, tra Dio ed il Mondo - creato a sua immagine e somiglianza, non si perda di vista questo punto - solca verso l'orizzonte un'onda laterale.

La dittatura del Carpe Diem.

carpe diem, quam minimum credula postero, diceva Orazio, molto tempo fa. E nonostante tanto tempo sia passato, questa lezione immagistrale è stata somatizzata a tal punto che ormai è diventata parte del nostro DNA, del nostro comune agire, della nostra vita quotidiana.
In verità, in verità io vi dico: questa lectio ha avuto prima un imbarbarimento atroce dovuto all'azzeramento delle prospettive intellettuali di popoli interi a seguito delle invasioni barbariche, per cui da sognatori bizantini siamo diventati servi glebae, ed abbiamo iniziato a tradurre eminenze intellettuali votate allo stordimento dello studente liceale (ma diem lo traduci attimo o tempo? o ancora, vita? "vivi il presente" spacca il culo ai passeri, ma la Prof vuole una traduzione letterale...) in detti legati alla miseria contadina e alla pochezza di una vita parca evidentemente obbligata. Vivi il presente è così diventato meglio un uovo oggi, che in fondo non importa di chi sia l'uovo, l'importante è averlo, il momento, il dies vale meno perché è intangibile in quanto è di tutti.
Ed arriviamo alla lezione somatizzata e omogeneizzata dai nostri antepassati, tradotta con la mestizia di una società servorum glebae improvvisamente urbanizzata, in qualche misura arricchita e ad ogni modo più incattivita ed incazzata, perché l'appetito vien mangiando, e quando cominci a mangiare bene non hai voglia di tornare a sfamarti a pane e formaggio industriale.

Prendi, fa' tuo, tu vinci perché sei tu, non perché te lo meriti.

Ogni tanto mi chiedo se questo retaggio appartiene alla società italiana o è estendibile a gruppi popolativi più ampî, il futuro forse mi darà una risposta. È un Marchese del Grillo in termini forse un po' più beceri. È la dittatura del momento, del presente, mangia più che puoi perché non sai cosa il domani, a cui non devi pensare, ti riserverà.

Penso persino che una parte sostanziale di questa impostazione mentale, o continuando col latino, forma mentis, derivi anche dall'egoismo positivo di tradizione Smithiana, in sostanza, la radice più antica del capitalismo. Ma in fondo non sono né sociologo né economista, quindi meglio non metterci becco.

Quam minimum credula postero, dedicati il meno possibile a ciò che verrà. Questo messaggio, in tanti modi, ci viene bombardato tutti i giorni. Addirittura ci sono delle ricerche mediche che dicono che chi si dedica di più alla speculazione, intesa nel senso morale più che economico di "proiezione di un pensiero nel futuro", ha più rischi di friggere il cervello ed avere problemi di nervi, fino a crisi di panico e perdere fiducia in se stesso.

Stronzate. Cari amici, lettori, astanti e simpatizzanti, eccovi il mio sano, gridato, incazzato parere:

Sono tutte sonore, magniloquenti ed altisonanti stronzate.

Se c'è qualcosa di sporco, di sudicio, di maleodorante, quel qualcosa è la dittatura del presente. Per quale strana ragione, spiegatemi, dovrei sentirmi indotto a non pensare al futuro? A vivere del momento? Mi sembra l'esagerazione del pensiero romantico, vivi di passioni caduche, vivi hic et nunc, il futuro non è né prevedibile né si può costruire, per questo mettiamolo nel dimenticatoio, riduciamoci a Hyaenae ridentes, passeremo una vita meravigliosa senza domani e finiremo per nutrirci dei nostri sogni morti. Come dei veri artisti romantici, viviamo dei turbini delle passioni, che per il futuro c'è Dio e le sue schiere angeliche o turme di vergini a disposizione per ogni anima pia.
E quando arriva un zé ninguém che tenta avere una prospettiva - di vita, d'amore, di professione - ecco che spesso e volentieri viene tacciato di essere strano, inadeguato, o persino gli viene intimato amichevolmente: "Amico, spegni il cervello ogni tanto".

Rinunciare alla prospettiva del domani significa in qualche misura rinunciare alla prospettiva della razionalità che ci caratterizza per essere umani e non fiere. L'apoteosi di questo fenomeno umano è apparso, in un coro di sonore risa, in una pubblicità diffusa non troppi mesi fa nei cartelloni che hanno fatto la fortuna di Berlusconi tempo addietro, i 6x3: la pubblicità era della Diesel, e ci invitava graziosamente a be stupid. Corollario normale, e persino giusto, all'inquadramento ir-razionale per cui inizi a non pensare al domani e finisci per non pensare mai, che tanto stupid has balls.

Sarò forse apocalittico? Esagerato? Magari questo è un minuto sintomo di scarsa fiducia nei confronti del genere umano? Personalmente direi di no. Tutt'al più è una considerazione determinata da uno sguardo disincantato nei confronti del mondo. E tutte queste parole, suoni, immagini e pensieri, passeranno senza fermarsi, perché dum loquimur fugerit invida aetas, entrée rotonda ed adeguata quando si vuol cogliere l'attimo.

Che in fondo la caducità di tutto questo Dio e mondo, la frivolezza di riempirsi la bocca con parole magniloquenti per apparire più importanti od interessanti di quanto in realtà non si sia, si vede che si ha senso solo nel frangente. D'altra parte, il caffè è finito, la bobina di masturbazione intellettuale si avvia ronzando verso la conclusione, bianca come nella migliore tradizione cinematografica in pellicola, e lo schermo non è più cangiante. Finisce Dio e finisce il mondo, e l'onda laterale è già ad un passo dall'orizzonte. Chissà se, come pensava Ulisse, raggiunti i limiti tangibili del pianeta, l'onda cadrà, e diventerà infinito, nello spazio. O se, semplicemente, tornerà indietro. Pensare, speculare sul futuro, significa anche pensare che c'è un'onda che ritorna solo per noi, per farci cadere e farci diventare infinito. Per non dover più pensare.

[Kazam82]

P.s.: chiedo immensamente perdono ma adoro le "d" eufoniche.
P.p.s.: nella mia tradizione di scrittore di blog, mi piace avere un rapporto diretto coi lettori. Percui se dopo aver letto questo pezzo avete un commento, non esitate a postarlo. Qualunque cosa vi passi per la testa, il vostro feedback è sì prezioso.

venerdì 14 giugno 2013

Aerei di Carta Nera

Non so se sia vero o meno.
Forse si tratta di una di quelle leggende metropolitane, quelle credenze virali spesso diffuse tramite internet, un po' surreali, abbastanza astruse da avere quella loro credibilità di fondo che ti induce a rimuginarci su mentre sei seduto sulla tazza per liberarti della cena cinese della sera prima: si dice che in media un uomo può fare anche quattro sogni erotici ogni notte.

sabato 8 giugno 2013

Impellenze Biologiche

Ho un gran bruciore dentro, il cuore batte all'impazzata, vuole pompare più sangue possibile al cervello, sa che non potrà trattenere ancora per molto.
Lo sguardo schizza spasmodico da destra a sinistra, sopra e sotto, diagonali, tangenziali e chi fin quando non trova ciò che stava cercando, le sigarette sono lì sulla mensola, la mano scatta fulminea, al solo contatto con il pacchetto le endorfine iniziano a scorrazzare per il corpo come una scolaresca di bambini in gita scolastica, ma non è ancora finita, ogni minimo accenno di rilassamento muscolare è proibito, ogni muscolo teso come un ultrà la sera del derby smania per riposarsi, la fronte è completamente imperlata di sudore, più passano i secondi (secondi? minuti? anni?) più la somiglianza con una statua di cera in vacanza ai tropici aumenta.
Richiamo all'ordine generale.
Chi si ferma ora è perduto.
Bisogna solo focalizzarsi sul bisogno sordo di evacuare quel bruciore interno.
Regolazione della respirazione.
Tamponamento del sudore.
Corsa pazza e disperata verso la stanza della salvezza.
Non è propriamente un sedersi, le gambe semplicemente collassano fino al contatto con la fredda superficie.
Le labbra si stringono attorno al filtro mentre il naso si riscalda per la fiamma, tutto sembra andare per il meglio se non fosse che...
La carta.
Come ogni santa volta manca la carta.
Maledicendo ogni possibile divinità, santo, asceta, buddha le gambe scattano e gli occhi ricominciano a rimbalzare dentro le orbite consapevoli che il tempo è agli sgoccioli.
Alla fine la trovano, ma la distanza sembra troppa, quand'ecco che tutte le speranze illuministiche sulle incredibili capacità umane si avverano tutte contemporaneamente e non sapendo bene come alla fine è tutto pronto.
Inalata la prima boccata di sigaretta sale la consapevolezza che ora è tutto pronto e ci si può lasciare andare.
Impugnata la penna si può iniziare a scrivere.
E quando l'inchiostro permea la cellulosa ingravidandola di parole realizzi che Freud e Pirandello avevano ragione.
Dentro siamo tutti bambini e più la tratteniamo più gusto c'è alla fine.

[Squiscio]