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venerdì 19 luglio 2013

Non c'è ragione

Sono abbastanza convinto che qualunque patentato automunito sia d'accordo con me nell'affermare che una delle cose più appaganti nell'esistenza di un essere umano sia guidare con un po' di sana musica nello stereo. Magari quando c'è poco traffico. Magari fuori città, così da bypassare i pestilenziali pedoni che attraversano in diagonale.

C'è un girone all'Inferno per quelli come voi!

E beninteso, con la giusta musica.

venerdì 12 luglio 2013

Breve storia di un portachiavi.



Diversi anni fa, in un momento abbastanza anonimo nella vita di tante persone, diversi accadimenti, succedutisi repentinamente oltreché drasticamente, imposero cambiamenti radicali – e si badi, non imposero di per sé, ma sì indussero – alla mia personale esistenza. Ma non è dei cambiamenti che mi sono imposto in quel periodo che voglio parlarvi oggi, bensì di uno di questi fatti, caduto come un fulmine a ciel sereno in un caldo e infervorato pomeriggio di luglio, che ha prodotto una delle improvvisazioni e bugie più innocenti che mi hanno visto come fautore e protagonista. Un fatto che ancora adesso mi fa gonfiare gli occhi e, per fortuna, sorridere, visto che molto virilmente credo che un uomo non debba piangere, neanche quando è da solo. Questa è la storia di un portachiavi, un oggetto di per sé abbastanza ridicolo, ma che mi ha insegnato che anche il più ridicolo degli oggetti può cambiare la vita, invero in questo caso ho esagerato, diciamo meglio: far vivere esperienze umanamente belle e raccoglierle per raccontarcele in un futuro lontano, e persino tramandarle. 

Come dissi al principio di questo racconto, succede che un giorno di luglio, verso l’una e mezzo del pomeriggio, una persona tra le più belle che abbia mai conosciuto e compagna di un legame che definirei figliale se ne sale in cattedra e annuncia, tra lo stupore di molti me compreso, di essere affetto da un brutto male, espressione eufemistica propria del giornalismo accomodante tipico italiano, uno di quei mali che in alcuni casi possono essere o diventare inguaribili. Uno di quei mali che pensiamo succeda sempre agli altri, a metà tra l’augurio e l’esorcismo, in un mantra d’impotenza e speranza che recita che se è inevitabile almeno che succeda sempre lontano dal focolare, che al male non c’è rimedio ma al massimo compassione e dimenticanza, perché il lutto non è mai il benvenuto nelle nostre microsocietà famigliari o amicali, e ci mancherebbe altro.

Invero devo ammettere che ho vaghi ricordi di quei momenti, probabilmente nonostante avessi già un’età per cui vivere esperienze ingiunge un ricordo più o meno radicato, il mio corpo altezzosamente razionale si è autoimposto una rimozione radicale degli elementi più destabilizzanti la mia naturale voglia di sorridere. Ed in qualche misura bene così direi, perché è naturale degli esseri umani cercare di raggiungere la felicità – sia essa qualcosa di reale e realmente raggiungibile o sia semplicemente una definizione dell’assenza di infelicità – e, soprattutto, non privarsi di quei momenti di dolce rilassamento dato dalla tranquillità forgiata dalla lontananza dei problemi.

La prima bugia di questo racconto, o mezza verità, od omissione dello stato delle cose, fu che scoprimmo che questo male veniva da lontano, esisteva addirittura in un momento altrettanto marcante della mia vita, quando nel ’95 fui con la mia squadra di rugby in Sudafrica, letteralmente dall’altra parte del mondo, ed il protagonista di questa storia, d’accordo con chi di dovere, decise di non dire niente per non turbare il sollazzo spensierato di una mezza sega rugbistica, perché poi all’atto pratico ci viene insegnato giustamente che le bugie hanno le gambe corte, espressione che spesso un ragazzino non capisce in sé, fino a quando un’anima pia ci spiega che chi ha le gambe corte non può correre lontano senza farsi beccare, e la metafora si scioglie, ma quando si cresce ci si rende conto che le bugie, le mezze verità o l’omissione dello stato delle cose rendono il mondo migliore, perché la verità spesso fa male, ma non sempre migliora le cose o rende il mondo più giusto. Noi mentiamo perché amiamo le altre persone, e con un piccolo gesto, cattivo probabilmente, rendiamo il mondo attorno alle persone alle quali mentiamo un po’ più tollerabile, o persino più bello. Le bugie spesso sono un segno d’amore, che come molti segni d’amore non viene capito, quando non osteggiato. La bugia, come molti segni d’amore, si paga di più per averla detta piuttosto che per averla evitata.

La seconda bugia di questo racconto ha a che vedere col portachiavi del titolo. Questo portachiavi è letteralmente una boiata che ai tempi mi costò credo addirittura 5 euro e che si vendeva a Monaco di Baviera. Sta di fatto che fui là in gita scolastica, meta per cui mi sono battuto strenuamente e che invero proposi in alternativa a Berlino. Non importa sapere per quale ragione volli andare a tutti i costi là, gesto puerile di un ragazzo egoista che voleva andare a tutti i costi in un posto e fu disposto a portarsi dietro una classe intera, compresi i professori, per seguire i suoi sogni. Quello che importa è che una volta dentro l’Hofbräuhaus, meta necessaria per giovani alcolisti perdigiorno, si aggirava un tipo che ti faceva una fotografia e al momento te la metteva in un portachiavi di plastica. Chiaramente in preda al fervore monacense non mi sono sentito di rifiutare la proposta, e comprai questo portachiavi. Che misi in una borsa qualunque e lasciai là, dimenticandomene. E la foto. Il mio faccione, capelli tipo riccio o Cocciante, Dreitagebart, o forse Zwanzigtagebart, un Maß pieno di birra retto dalla sinistra e pollice verso l’alto esposto con la destra. Un obbrobrio degno del peggior turista italiano in Baviera. 

Passarono i mesi dopo l’annuncio, ai drammi citati sopra seguirono altri drammi nella migliore tradizione che vede le disgrazie avere ottima socialità con le loro consimili, fino a che il protagonista di questa storia decide che deve affrontare il giudizio delle Parcae, e scoprire se il suo filo continuerà ad essere tessuto oppure verrà reciso. Mi chiese, un giorno non so quando, che sarebbe stato suo immenso piacere avermi al suo fianco il giorno dell’ingresso in ospedale. Ammetto di aver accettato senza riserbo, nonostante avessi terrore di tutto. Ci siamo organizzati. Vestiti, oggetti, computer, musica, tutto quello che è necessario per alleviare l’obbligo di permanenza in una camera sterile. Quando mi stavo preparando per uscire, mi passò per le mani quel portachiavi. Decisi di portarlo con me. Credo che andammo in taxi, esperienza fondativa per me visto che andare in taxi a Milano sarà capitato, fino a quel momento, forse una volta. Andammo dove di dovere, consegnai tutto al protagonista, lo abbracciai. Non sapevo come funzionavano quelle cose, ero terrorizzato, lo aiutai a portare tutto agli infermieri e dopo gli dissi, Senti, prendi questo, porta fortuna, e gli diedi il mio portachiavi. Lo prese, mi abbracciò, ci salutammo, e scappai da quel lugubre sito immacolato di vernice col respiro corto e gli occhi gonfi. Tentai a tutti i costi di non piangere, credo che singhiozzai un paio di volte, non so perché alle volte voglio a tutti i costi essere così ridicolo. 

Ed ecco la bugia fondazionale di questo racconto. Il portachiavi non portava fortuna. Era un orrore turistico bavarese, che mi passò per le mani in un certo momento, e dissi la cosa più ridicola che mi passò per la testa: porta fortuna. Non porta niente, è un portachiavi. La frase aveva un duplice intento consolatorio, probabilmente, per me e per il protagonista. Per lui, perché aveva una stupidaggine con il mio faccione e che portava per giunta fortuna in un momento in cui la fortuna può determinare molto, o persino tutto. Per me, perché dare un feticcio qualsiasi era consolatorio e giustificatorio, Ho fatto qualcosa di buono per qualcuno che ha bisogno, e la mia bugia ha reso il suo mondo, critico e precario, un filino più bello. 

Francamente non mi ricordo bene quanto tempo passò da quel momento fino al giorno – il Giorno, quello dove tutto si sarebbe deciso. So che forse la cosa più bella di tutta questa storia successe in un frangente in cui non ero in casa, o più probabilmente stavo dormendo, o forse mi stavo alienando. In direzione verso il posto dove si sarebbe svolta un’operazione, l’ambulanza che portava il protagonista passò sotto casa mia. Chiese agli infermieri di dare un colpo di sirena proprio di fronte a casa, del genere Ehi, io ci sono, poi ripasso qui. 

Ho sognato una vita che in quel frangente avesse con sé quel portachiavi.

Recentemente abbiamo festeggiato dieci anni da quell’operazione. Mi emoziono ancora quando parlo di un portachiavi, inutile e forse persino brutto, foriero di una menzogna consolatoria. Perché se è vero, come dicevano i Romani, che homo faber ipsius fortunae, allora il protagonista, ed io stesso, abbiamo vinto entrambi: lui, che ha rischiato tutto per guarire, io, che ho raccontato una menzogna per farlo guarire. 

Ed è guarito.

Quel portachiavi, forse, portava veramente fortuna. O forse l’ho messa io lì dentro quando glielo diedi.  

Quel portachiavi adesso raccoglie le chiavi di casa del protagonista.

Perché casa è il posto dove sta il cuore. Ed un portachiavi bugiardo.

venerdì 5 luglio 2013

Pediluvio Metafisico

Inizialmente quest'articolo voleva essere un commento di risposta al bellissimo post di Kazam "Noi siamo infinito" ma data la scarsa capacità di carico dei commenti (maledetto il giorno in cui limitammo la nostra capacità espressiva col numero di caratteri massimi) ho ritenuto più appropriato pubblicarlo nella sua interezza.

Ci sono questioni che prima o poi ci si pone e anche dopo averle poste continuano a tormentarci (o dilettarci?) perché ciò che credevamo di aver raggiunto si sgretola tra le mani o semplicemente sfugge al nostro sguardo, alla nostra comprensione, chiedendoci continuamente di essere rincorso.
Ci sono punti sui quali sono prepotentemente d'accordo con te, specialmente per quanto riguarda la tensione infinita che è rinchiusa nell'uomo, proprio nello stesso uomo che nel fluire del tempo chiamato storia si è dimostrato capace di azioni e opere che spaziano dal magnifico all'infimo, capaci di suscitare sentimenti sublimi o il terrore più cupo.
Dopo millenni di convivenza con se stesso e i suoi simili l'uomo cosa ha capito di sé? Si può davvero parlare in generale di qualcosa che trova la sua massima espressione nella singolarità? Qual è il nostro destino, indiarci verso una gioia infinita o perire nella sofferenza più atroce? Oscillare come un pendolo tra picchi di euforia e disperazione o rimanere stoicamente fermi al centro osservando e comprendendo ciò che ci circonda?

È vero che per conoscere e capire qualcosa abbiamo bisogno obbligatoriamente del suo contrario (e qui sorge doverosamente una ringraziamento ad Eraclito, coi piedi immersi nel suo ruscello), e ritengo probabile che sia per questo, per conoscersi meglio, che l'uomo abbia inventato Dio, suo eterno opposto, nel tentativo di conoscersi meglio.
O magari che Dio abbia creato l'uomo per conoscere qualcosa in più di sé, per essere riconosciuto e finalmente riconoscere qualcuno in quel miracolo di eterogeneità che è l'esistenza (umana o divina che sia).

Ed è qui che si gioca il grosso della questione.

Factus sum mihimetipsi quaestio. Noi siamo domande per noi stessi, come affermava Sant'Agostino, e se l'uomo è la domanda Dio è l'immediata risposta.
E' vero che nell'uomo soggiace una tensione infinita, tensione però racchiusa in una finita e determinata quantità di anni che sono a nostra disposizione, e per dirla schiettamente una risposta serve più da vivi che da morti, ed ecco che questa risposta ci viene data attraverso quel processo di rivelazione della verità che si esprime nelle religioni con i loro Dei.
Ma se l'uomo non fosse la domanda? Se invece noi, insieme a tutto l'Esistente, fossimo la risposta?

L'uomo non è sempre stato. In principio non era il verbo.
Sarebbe più corretto dire che "In principio non era" perché secondo me all'inizio non c'era proprio un bel nulla, così nulla che non c'era neanche l'inizio.

Ve lo dico brutalmente: io credo in dio.
Badate bene, non credo in Dio o negli Dei, non credo in un triangolo con l'occhio o in corpulento uomo dorato, non credo in nulla che sia antropomorfo e non credo che dio abbia coscienza di sé o degli altri, credo che non abbia coscienza, non abbia percezione, per farla breve non credo abbia qualità alcuna se non l'esistenza,  ma credo che noi Siamo; ovvero credo che nello stato attuale delle cose tutto ciò che esiste sia caratterizzato dalla sua stessa Esistenza.

Se non mi avete liquidato con un fragoroso "Grazie al cazzo" vi spiego meglio quello che intendo.
Noi esistiamo su un pianeta che esiste in una galassia che esiste in un universo che esiste e non possiamo liquidare la questione scaricando la responsabilità del tutto su un Dio o un Bosone perchè anche loro se sono, sono in una condizione di esistenza.

La domanda alla fine è sempre una: Perché l'essere e non il nulla?
Perché alzarsi dal letto quando si può rimanere a dormire?

Potete chiamarlo caso, chaos, fortuna, destino, o potete non chiamarlo affatto, ma ciò non toglie che noi siamo e che tutto ciò che esiste sia con noi.
E proprio noi, insieme a tutto l'esistente, siamo la risposta al nulla che avremmo potuto essere.

Siamo risposte ed è per questo che da sempre  in vari modi e molte forme continuiamo a cercare la nostra domanda.