Diversi
anni fa, in un momento abbastanza anonimo nella vita di tante persone, diversi
accadimenti, succedutisi repentinamente oltreché drasticamente, imposero
cambiamenti radicali – e si badi, non imposero di per sé, ma sì indussero –
alla mia personale esistenza. Ma non è dei cambiamenti che mi sono imposto in
quel periodo che voglio parlarvi oggi, bensì di uno di questi fatti, caduto come
un fulmine a ciel sereno in un caldo e infervorato pomeriggio di luglio, che ha
prodotto una delle improvvisazioni e bugie più innocenti che mi hanno visto
come fautore e protagonista. Un fatto che ancora adesso mi fa gonfiare gli
occhi e, per fortuna, sorridere, visto che molto virilmente credo che un uomo
non debba piangere, neanche quando è da solo. Questa è la storia di un
portachiavi, un oggetto di per sé abbastanza ridicolo, ma che mi ha insegnato
che anche il più ridicolo degli oggetti può cambiare la vita, invero in questo
caso ho esagerato, diciamo meglio: far vivere esperienze umanamente belle e
raccoglierle per raccontarcele in un futuro lontano, e persino tramandarle.
Come
dissi al principio di questo racconto, succede che un giorno di luglio, verso
l’una e mezzo del pomeriggio, una persona tra le più belle che abbia mai
conosciuto e compagna di un legame che definirei figliale se ne sale in
cattedra e annuncia, tra lo stupore di molti me compreso, di essere affetto da
un brutto male, espressione eufemistica propria del giornalismo accomodante
tipico italiano, uno di quei mali che in alcuni casi possono essere o diventare
inguaribili. Uno di quei mali che pensiamo succeda sempre agli altri, a metà
tra l’augurio e l’esorcismo, in un mantra d’impotenza e speranza che recita che
se è inevitabile almeno che succeda sempre lontano dal focolare, che al male non
c’è rimedio ma al massimo compassione e dimenticanza, perché il lutto non è mai
il benvenuto nelle nostre microsocietà famigliari o amicali, e ci mancherebbe
altro.
Invero
devo ammettere che ho vaghi ricordi di quei momenti, probabilmente nonostante
avessi già un’età per cui vivere esperienze ingiunge un ricordo più o meno
radicato, il mio corpo altezzosamente razionale si è autoimposto una rimozione
radicale degli elementi più destabilizzanti la mia naturale voglia di
sorridere. Ed in qualche misura bene così direi, perché è naturale degli esseri
umani cercare di raggiungere la felicità – sia essa qualcosa di reale e
realmente raggiungibile o sia semplicemente una definizione dell’assenza di
infelicità – e, soprattutto, non privarsi di quei momenti di dolce rilassamento
dato dalla tranquillità forgiata dalla lontananza dei problemi.
La
prima bugia di questo racconto, o mezza verità, od omissione dello stato delle
cose, fu che scoprimmo che questo male veniva da lontano, esisteva addirittura
in un momento altrettanto marcante della mia vita, quando nel ’95 fui con la
mia squadra di rugby in Sudafrica, letteralmente dall’altra parte del mondo, ed
il protagonista di questa storia, d’accordo con chi di dovere, decise di non
dire niente per non turbare il sollazzo spensierato di una mezza sega
rugbistica, perché poi all’atto pratico ci viene insegnato giustamente che le
bugie hanno le gambe corte, espressione che spesso un ragazzino non capisce in
sé, fino a quando un’anima pia ci spiega che chi ha le gambe corte non può
correre lontano senza farsi beccare, e la metafora si scioglie, ma quando si
cresce ci si rende conto che le bugie, le mezze verità o l’omissione dello
stato delle cose rendono il mondo migliore, perché la verità spesso fa male, ma
non sempre migliora le cose o rende il mondo più giusto. Noi mentiamo perché
amiamo le altre persone, e con un piccolo gesto, cattivo probabilmente,
rendiamo il mondo attorno alle persone alle quali mentiamo un po’ più
tollerabile, o persino più bello. Le bugie spesso sono un segno d’amore, che
come molti segni d’amore non viene capito, quando non osteggiato. La bugia, come
molti segni d’amore, si paga di più per averla detta piuttosto che per averla
evitata.
La
seconda bugia di questo racconto ha a che vedere col portachiavi del titolo.
Questo portachiavi è letteralmente una boiata che ai tempi mi costò credo
addirittura 5 euro e che si vendeva a Monaco di Baviera. Sta di fatto che fui
là in gita scolastica, meta per cui mi sono battuto strenuamente e che invero
proposi in alternativa a Berlino. Non importa sapere per quale ragione volli
andare a tutti i costi là, gesto puerile di un ragazzo egoista che voleva
andare a tutti i costi in un posto e fu disposto a portarsi dietro una classe
intera, compresi i professori, per seguire i suoi sogni. Quello che importa è
che una volta dentro l’Hofbräuhaus, meta necessaria per giovani alcolisti
perdigiorno, si aggirava un tipo che ti faceva una fotografia e al momento te
la metteva in un portachiavi di plastica. Chiaramente in preda al fervore
monacense non mi sono sentito di rifiutare la proposta, e comprai questo
portachiavi. Che misi in una borsa qualunque e lasciai là, dimenticandomene. E
la foto. Il mio faccione, capelli tipo riccio o Cocciante, Dreitagebart, o forse Zwanzigtagebart, un Maß
pieno di birra retto dalla sinistra e pollice verso l’alto esposto con la
destra. Un obbrobrio degno del peggior turista italiano in Baviera.
Passarono
i mesi dopo l’annuncio, ai drammi citati sopra seguirono altri drammi nella
migliore tradizione che vede le disgrazie avere ottima socialità con le loro
consimili, fino a che il protagonista di questa storia decide che deve
affrontare il giudizio delle Parcae,
e scoprire se il suo filo continuerà ad essere tessuto oppure verrà reciso. Mi
chiese, un giorno non so quando, che sarebbe stato suo immenso piacere avermi
al suo fianco il giorno dell’ingresso in ospedale. Ammetto di aver accettato
senza riserbo, nonostante avessi terrore di tutto. Ci siamo organizzati.
Vestiti, oggetti, computer, musica, tutto quello che è necessario per alleviare
l’obbligo di permanenza in una camera sterile. Quando mi stavo preparando per
uscire, mi passò per le mani quel portachiavi. Decisi di portarlo con me. Credo
che andammo in taxi, esperienza fondativa per me visto che andare in taxi a
Milano sarà capitato, fino a quel momento, forse una volta. Andammo dove di
dovere, consegnai tutto al protagonista, lo abbracciai. Non sapevo come
funzionavano quelle cose, ero terrorizzato, lo aiutai a portare tutto agli
infermieri e dopo gli dissi, Senti, prendi questo, porta fortuna, e gli diedi
il mio portachiavi. Lo prese, mi abbracciò, ci salutammo, e scappai da quel
lugubre sito immacolato di vernice col respiro corto e gli occhi gonfi. Tentai
a tutti i costi di non piangere, credo che singhiozzai un paio di volte, non so
perché alle volte voglio a tutti i costi essere così ridicolo.
Ed
ecco la bugia fondazionale di questo racconto. Il portachiavi non portava
fortuna. Era un orrore turistico bavarese, che mi passò per le mani in un certo
momento, e dissi la cosa più ridicola che mi passò per la testa: porta fortuna.
Non porta niente, è un portachiavi. La frase aveva un duplice intento
consolatorio, probabilmente, per me e per il protagonista. Per lui, perché
aveva una stupidaggine con il mio faccione e che portava per giunta fortuna in
un momento in cui la fortuna può determinare molto, o persino tutto. Per me,
perché dare un feticcio qualsiasi era consolatorio e giustificatorio, Ho fatto
qualcosa di buono per qualcuno che ha bisogno, e la mia bugia ha reso il suo
mondo, critico e precario, un filino più bello.
Francamente
non mi ricordo bene quanto tempo passò da quel momento fino al giorno – il
Giorno, quello dove tutto si sarebbe deciso. So che forse la cosa più bella di
tutta questa storia successe in un frangente in cui non ero in casa, o più
probabilmente stavo dormendo, o forse mi stavo alienando. In direzione verso il
posto dove si sarebbe svolta un’operazione, l’ambulanza che portava il
protagonista passò sotto casa mia. Chiese agli infermieri di dare un colpo di
sirena proprio di fronte a casa, del genere Ehi, io ci sono, poi ripasso qui.
Ho
sognato una vita che in quel frangente avesse con sé quel portachiavi.
Recentemente
abbiamo festeggiato dieci anni da quell’operazione. Mi emoziono ancora quando
parlo di un portachiavi, inutile e forse persino brutto, foriero di una
menzogna consolatoria. Perché se è vero, come dicevano i Romani, che homo faber ipsius fortunae, allora il
protagonista, ed io stesso, abbiamo vinto entrambi: lui, che ha rischiato tutto
per guarire, io, che ho raccontato una menzogna per farlo guarire.
Ed
è guarito.
Quel
portachiavi, forse, portava veramente fortuna. O forse l’ho messa io lì dentro
quando glielo diedi.
Quel
portachiavi adesso raccoglie le chiavi di casa del protagonista.
Perché casa è il posto dove sta il cuore. Ed un
portachiavi bugiardo.