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domenica 20 ottobre 2013

5 e mezzo.

Qualche settimana fa una mia amica mi disse:
tu dovresti scrivere un libro. 

Ammetto che il mio stupore non fu poco, perché in vita mia me ne hanno dette tante ma che potessi o addirittura dovessi scrivere un libro non mi era mai capitato. Quantomeno questa asserzione dirompente è stata la scusa per ritornare indietro e capire perché mi fossi messo a scrivere qualcosa, peraltro senza grandi pretese, ma che ha potuto sortire effetti sì roboanti al punto da pensare che fosse tutta una gag campata per aria, come spesso ce ne capitano in cui ce ne si esce con mezze verità obbligate dal contesto che, normalmente, si riassumono con troppo ampî ondeggii del capo e frasi di brutale circostanza come "Bravo, bravo...".

Io ero il giovane uomo da 5 e mezzo nei temi. Ho passato 14 anni a scuola a scrivere temi e fregnacce indegne per ottenere un voto e non mi sono mai staccato dal 5 e mezzo. La genialità e il vuoto culturale, la voglia di scrivere e la nolontà, l'applicazione rigorosa dei vincoli formali o la post modernità più annichilente, la casta dei professori di italiano sapeva, o meglio sentiva, che qualunque cosa scrivessi era da 5 e mezzo. Peraltro, adducendo ragioni ricorrenti e ricorsive: idee mediocri, scritta stantia, scarso stile, risultato poco conforme alla richiesta. 5 e mezzo. Che fossero professori ciellini o marxisti ortodossi, includendo tutte le tonalità di grigio nel mezzo, non si scappava. 


Quando ero pischello, inoltre, ebbi in più di un'occasione la tentazione, il desiderio profondo di "scrivere un libro". Mi è capitato almeno tre volte. Personalmente non so cosa succeda nella testa di uno scrittore, quando ha un'idea e decide di scrivere, quando incontra una soluzione retorica e trova che sia finalmente il momento giusto per iniziare, oppure semplicemente un mattino, dopo un caffè nero come l'abisso della mente umana, sente semplicemente che deve - non può attenzione, ma deve, come se fosse vittima di un impulso irrefrenabile e primordiale - salire in cattedra e iniziare il lavoro, o meglio, lasciarsi trasportare dal demonio della carta e lasciare che il bianco di un A4 o l'interfaccia candida di un programma di videoscrittura chiamino fuori dall'anima dell'autore parola dopo parola quello che vogliono che venga scritto.

Che poi sono una persona abbastanza inconcludente, purtroppo, quindi di solito iniziavo con la foga dell'assatanato ma arrivato alla pausa dell'ora di cena i demonî della carta si sublimavano, termine qui inteso come fenomeno chimico per cui avviene un passaggio di stato dal solido al gassoso senza passare dal liquido, che peraltro è anche quello che normalmente mi accade con le ragazze, ma questo è un altro discorso (sublimare le tipe è un'espressione meravigliosa ed eccezionale perché spiega perfettamente il moto attivo di voler far star bene l'altra persona e la risposta quantomeno automatica dell'oggetto dell'attività con la sua sparizione completa, repentina ed irreversibile. Questo termine è sublime). Il massimo che sono riuscito a scrivere, nelle tre occasioni in cui avevo sostenuto "Adesso scrivo un libro", è stato una ventina di pagine. E in un'altra occasione scrissi un racconto breve, in sostanza un sogno, o meglio incubo, che per puro caso mi era rimasto nella memoria da pesce rosso di cui sono stato provvisto amorevolmente alla nascita, che tradussi su carta. 

Non ho alcun feticcio di tutte queste cose. Sono contento così. Anche se ho l'impressione che un lettore qualunque, preparato o meno, mi avrebbe dato 5 e mezzo.

Poi decisi di partire per l'Erasmus. Anno Domini 2008. I primi risultati di quella decisione furono farmi un account Facebook e aprire un blog. L'esigenza e la volontà di rimanere a contatto coi miei compari di Milano mi indusse a trovare delle soluzioni confacenti all'esigenza poc'anzi espressa. Nacque così "A vida de um homem desesperado", la vita di un uomo disperato, primo di tre blog aperti dal sottoscritto (avvertenza, questa ricorrenza del numero tre non è un artificio retorico in stile dantesco, è un caso), in cui raccontavo la mia vita in Portogallo. Poi successe che delle persone, amici erasmiani conosciuti in loco, lessero i post che pubblicavo e dissero che per loro era bellino leggerli. Che ridevano. 

Che era esattamente l'obiettivo del mio scrivere. Raccontare quello che mi succedeva in Portogallo e far sorridere i lettori. Ci riuscii. Ero contentissimo. 

Poi iniziarono anche le critiche. Prolisso, la forma usata non collima col modello condiviso di post di un blog, poco chiaro per la scrittura ridondante. 

Decisi dunque che la mia scrittura sarebbe stata solo quello che volevo io. Che avrei scritto in una forma che mi avrebbe divertito, senza scendere a compromessi con chicchessia. Che avrei usato tutte le parole che avrei voluto, inerenti ed aderenti o meno a quello che avrei voluto scrivere. Che avrei scritto quanto avrei voluto, senza pensare che, trattandosi di post di un blog o simili allora dovevo scrivere poco perché è così che si deve fare. Decisi di suonarmela e cantarmela da solo. E se poi i lettori si divertivano, tanto meglio. In altri termini, stavo facendo solo un servizio parziale verso il pubblico. Avevo deciso che quello che avrei scritto l'avrei fatto seguendo ed imponendomi canoni che solo io avrei deciso e sui quali non sarei sceso a compromessi. Avevo scelto la soluzione centripeta: gli sforzi portano tutto a me, al centro, come un novello Napoleone delle dinamiche retoriche e narrative in versione 2.0, scrivere per se stessi strizzando l'occhio al pubblico, ma come farebbe lo stesso Napoleone, o più prosaicamente un Mangiafuoco, sostenendo che siamo tranquilli e pasciuti finché si rispettano le regole che io ho scelto e dato al mio giochino, e se non si è d'accordo, come direbbe Grillo con la moderazione e affabilità che lo caratterizzano da sempre, fuori dai coglioni.

Il blog luso-erasmiano finì perché mi misi con una ragazza, e tra lo stare con lei o scrivere ho optato per la prima possibilità. Poi passarono i mesi, e quando la ragazza mi lasciò arrivarono i punti di svolta. Dopo una conversazione su Facebook circa indicazioni su come tacchinare non una ma ben diverse ragazze contemporaneamente, sorse l'idea di aprire il terzo blog, chiamato tra i frequentatori "lo xilotubero". Praticamente la raccolta del meglio dei contenuti de A vida con le soluzioni formali più innovative sviluppate dopo qualche anno di pratica di scrittura. Pochi mesi dopo l'apertura di questo blog, salì in cattedra A Malambr, che non ricordo nemmeno perché chiese a me, perfetto sconosciuto o quasi visto che ci eravamo visti sporadicamente a Monaco di Baviera ormai più di un anno fa e quando ci si incrociava tendenzialmente si giocava come cretini a fare "Cioppi-cioppi" (chiedete a Malambr che cos'è, nel caso non l'abbia fatto anche con voi), di partecipare ad un progetto-blog che recuperava le prospettive abbandonate qualche tempo fa e che nascevano da una piattaforma narrativa online - evidentemente un gruppo di persone non sorte attraverso l'atto unificatore del "Cioppi-cioppi", una sorta di Amaro Montenegro in salsa barlettana -. Ed ecco che nasce l'Onda Laterale. 

Negli ultimi tempi ho parlato proprio con A Malambr, che mi ha spiegato alcuni punti di vista emersi nelle sue discussioni con lettori dell'Onda. Discussioni i cui risultati ho provveduto ad incrociare con le impressioni dei lettori dello xilotubero. E da cui la constatazione conclusiva.

5 e mezzo. Forse naturalmente sono un mediocre scrittore di blog i cui prodotti sono valutabili attorno al 5 e mezzo. E attenzione, ve lo dico sinceramente, non scrivo queste cose nella speranza che poi qualche commento di qualche crocerossino/a sostenga che no, che scrivo bene, ti darei 7 o persino 7 e mezzo (d'Emblèe), magari se scrivessi un po' meno sarebbe meglio, né tantomeno scrivo questo perché, come dice il bravissimo Squiscio, sono un preso a male. 5 e mezzo perché sono io che scrivo, che se fosse un altro a scrivere esattamente parola per parola tutto quello che propongo magari è 6 e mezzo, o 7 meno. Perché adesso godo del vantaggio di non essere giudicato se non da chi mi legge perché vuole farlo, e non perché è obbligato per vincoli di contratto. Ma perché forse dal piglio tecnico scrivo per scrivere un libro solo che lo faccio su una piattaforma online. Perché quando scrivo e parlo uso parole che si sentirebbero più a loro agio in uno scambio epistolare della Belle Époque, come quando mando i messaggi in portoghese usando la seconda persona plurale. C'è sempre un senso di inadeguatezza nei miei post, senso che sono il primo a riconoscere di voler volontariamente mettere dentro la trama delle parole, che fa parte di me, come se fosse una replica di me stesso su un foglio bianco. Forse, più che di inadeguatezza, si potrebbe parlare di sconvenienza, visto che so esattamente qual è il punto debole della mia scrittura, ma nonostante lo sappia, evito di cambiare e trovare soluzioni più confacenti. Insomma, è una questione di stile. E ognuno ha'l suo.  E si può persino essere orgogliosamente sconvenienti.

Il mio è uno stile fieramente 5 e mezzo. 
 
Epilogo: questo post è stato brutalmente improvvisato. A causa di un disguido tecnico, confrontandomi ieri con A Malambr, sono stato sorteggiato per scrivere qualcosa. Ho appena finito di leggere quanto scritto. Si caratterizza per due cose, se posso dare un'opinione sinceramente onesta a qualcosa che ho scritto io: è decisamente sconveniente, e sono sicuro di aver raggiunto largamente l'obiettivo di scrivere scrivere e scrivere senza dire assolutamente niente. Anche questo è stile.

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