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venerdì 21 giugno 2013

Noi siamo Infinito.


L’introduzione al mio post di tre settimane fa recitava, un po’ per boria, un po’ per apprezzamento dell’adeguatezza, un’espressione in tedesco che mi piace particolarmente. Parlare di Dio e del mondo, espressione decisamente più magniloquente eppure definita del nostro un po’ misero più e meno, o tutto ed il contrario di tutto. Che peraltro, se tentiamo un paragone tra l’espressione corrente tedesca e l’ultima citata sopra, si potrebbero trovare affinità e si potrebbe addirittura formulare qualche parallelo, se diamo per accettabile che Dio è tutto ed il mondo il contrario di tutto, se non fosse che, citando ancora il post che scrissi in precedenza, il mondo è stato creato a immagine e somiglianza del Divino, dunque non si capirebbe perché debba essere il suo contrario. Si arriva di conseguenza ad uno stato di paradosso irriducibile, Dio ed il mondo, Sua immagine ridotta ad uno schizzo, inconciliabile col Padre, eppure prodotto del perfetto. Può il perfetto produrre l’imperfetto, eppure mantenerlo coerente con la sua origine?


Questo post parlerà di varî paradossi, anche se mi piacerebbe inventare una parola nuova, o quantomeno sperare che sia nuova, perché sono disposto a mettere la mano sul fuoco che qualcuno, in un altro tempo, luogo o dimensione l’ha già inventata, e pensare di chiamarla paraeudosso, ossia l’inconciliabilità e l’incoerenza di due semplici cose, eppure che danno luogo ad un risultato definibile come bello. D’altra parte, e chiedo scusa per la ridondanza, un’onda laterale è un semplice e immediato paraeudosso.

Ricorsivamente, ormai da qualche anno, penso a cosa sia Dio, punto di partenza fondamentale di una ricerca di chiarezza nella mia testa per risolvere, almeno dal mio punto di vista, le più banali domande che ci definiscono come essere umani: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, cosa succede quando non siamo più. Ricerca di chiarezza culminata, peraltro, in un punto di umiltà senza mezzi termini, ovverosia l’ammissione d’incapacità e d’incompetenza per poter procedere alla risoluzione del problema, e l’asserzione convinta che non sono in grado di stabilire se Dio esiste o meno, senza per questo voler imporre questa opinione – perché credo non è – a chicchessia, acme di un percorso personale che, molto più prosaicamente, ha prodotto il risultato di una bella scomunica da parte di Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, per le risa di tutti gli astanti.
Aldilà delle opinioni dei giureconsulti di diritto canonico, ho continuato – e continuo – ad interrogarmi sulla natura del Divino, da storico, da pensatore libero, da essere umano nella sua finitezza. Se non che la risposta a cui sono approdato, invero banalissima ma splendidamente umana, è che il Divino non è nient’altro che una rappresentazione intangibile di ciò che non siamo e che, in qualche misura, vorremmo essere. Quali sono, in fondo, gli atti costitutivi di Dio nella sua declinazione monoteista? Infinito, Onnipotente, Onnipresente, Onnisciente. In fondo trovo abbastanza paradossale partire dalla nostra finitezza per giungere alla perfezione: in qualche misura se la razza umana si fosse concentrata di più sui suoi limiti e finitezze per alleviarle invece che creare una rappresentazione uguale e contraria a se stessa che finisce per comandare e decidere, forse adesso competeremmo col Capitano Kirk per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima. Ma questo è un altro discorso. E la cosa divertente è che già in questa parte di descrizione del problema, sono apparsi varî paradossi.

Dio come proiezione antipodica dell’essere umano rispetto a se stesso, in un circolo eterno in cui nessuno è se non per e nell’altro. Essere umano, finito, limitato, imperfetto, naturalmente disposto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per essere qualcosa di più, eternamente scontento del suo stato caduco, che vuole essere Dio e si scopre ogn’istante terra e cenere e argilla. Eppur non smette. La ricerca come essenza dell’essenza, la prospettiva come sogno per cui vale la pena esistere, la forma che è più carica di significato del significato stesso. Questi sono, a mio modo di vedere, i termini del problema. E non sono a noi sufficienti tutte le arti onomastiche, etimologiche e descrittorie per ottenere definizioni che aiutino a modellizzare due enti, anche astraendoli dalla realtà, senza svuotarli di significato, di sfumature, di dettagli, perché, non dimentichiamolo, per par condicio, e a maggior ragione poiché si continua a citare Dio e Dei varî, che è nei dettagli che si nasconde il Diavolo, oltre che nelle pentole, aggiungerei. E andiamo al dunque con un esercizio di logica che ha pretese ferree ma che difficilmente potrà produrre un risultato rigoroso. 

Dio, essendo proiezione umana di ciò che l’essere umano non è, è Infinito e Perfetto. Perché l’Uomo Infinito e Perfetto non è, e ragionevolmente vorrebbe esserlo. Guardando ancora una volta alla cultura tedesca, questo desiderio fu posto in essere magistralmente da Goethe nel Faust, poiché l’anelito di Faust alla perfezione nella più nobile, alta e umana delle arti, la conoscenza, era a tal punto asfissiante che, in paradosso con la sua bontà d’animo, non esitò a scendere a patti col Diavolo, con Mefistofele, altrettanto ragionevolmente l’antipode dell’uomo essendo noi nati a Immagine e Somiglianza del Divino, per ottenerla. L’Uomo dunque come essere Finito e Imperfetto. 

No

Dire dell’Uno o dell’Altro Finito e Imperfetto o Infinito e Perfetto significa unire ciò che non si può unire. Una contraddizione in termini. Vediamo cosa vogliono dire le parole Finito e Perfetto, dando per assunto che il prefisso in- indica la negazione della parola dunque non implica modificazioni sostanziali ma solo un senso uguale e contrario alla parola originaria. Finito, andando a naso e cercando un po’ in internet qualche sito utile all’analisi, rimanda al verbo latino finire, dalla parola finis, is, parola molto interessante perché al singolare significa semplicemente fine, termine, conclusione, mentre al plurale (fines, ium) significa confini, frontiere, limiti – siano essi politici o geografici, e aggiungo io morali –. L’idea che dunque suggerisce il termine Finito è qualcosa di compiuto, di concluso, di limitato perché detiene dei confini. Ciò che è finito è al punto d’arrivo, è il non plus ultra, è il risultato. E poi Perfetto. Ancora, parola di origine latina, per + factum, dove per è un prefisso per dare un senso di compimento; dunque il Perfetto è un “fatto compiuto”, un elemento concluso, un risultato, un non plus ultra

Il paradosso, quello vero, quello che si nasconde nei dettagli, nella magia delle parole, è che due termini contrarî sono sinonimi. Certo, probabilmente un vero linguista sosterrà impettito che sto dicendo un mucchio di stupidaggini, che l’analisi è superficiale, che non c’è rigore scientifico. Tutto vero. Cerchiamo, però, di leggere quanto scrivo con una punta di magia e romanticismo. Al peggio, si sorride. Si sorride ad immaginare che ciò che è concluso sia il massimo grado, sia la perfezione, sia il non plus ultra, e che abbia in sé quelle caratteristiche che si cercano nel suo contrario, nell’inconcluso e inconcludente, nel Perfetto che, in fondo, Perfetto non è o non vuole essere. Il Finito trova la sua Perfezione nell’attimo in cui il principio agente che lo muove muore, fissandolo nell’eternità come immutabile, come costante, come Perfetto perché accaduto. Non è un caso che la parola perfetto sia usata in tantissime lingue per indicare un tempo passato, ossia un tempo verbale in cui l’azione è iniziata e conclusa nel passato, un’azione che è fissata per sempre in un tempo che non è più. E questa definizione mi piace molto per arrivare al contrario delle due parole finora analizzate: Infinito e Imperfetto. Infinito, termine uguale e contrario a Finito, impensabile, irrazionale, inumano, paradigma vero di tanti verbi in tante lingue. Infinito è senza principio né conclusione, è privo di un principio agente che lo muove perché è in sé il principio agente, perché comunica significato. È la liberazione dai vincoli terreni e dalle finitudini che sono principio di definizione dell’essere umano. E Imperfetto. Inconcluso, dinamico, attivo eppur vittima di quel principio agente che vorrebbe dominare, o essere. Ritornando al punto verbale, Imperfetto è ciò che viene da un passato che ci lambisce ancora e coi denti e con le unghie tenta di arrivare fino a noi, nella sottile linea rossa che chiamiamo presente, solo per dirci che è vivo, per metterci il fiato sul collo, per comunicarci una relazione. È sinonimo un po’ claudicante d’Infinito.

Può Dio essere Infinito e Perfetto? Può l’uomo essere Finito e Imperfetto? 

Non sono nessuno per asserire qualcosa che abbia un vago retrogusto di certezza in merito a queste domande. Ma quello che credo, umanamente, frutto incompiuto di tante ore di pensiero, è che Noi siamo Infinito. Questo, in fondo, è il vero paraeudosso. Noi siamo Infinito perché siamo perfetti, stavolta nel senso di limitati, siamo carne, Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris, torneremo polvere. Ed è questa limitatezza, questa caducità a toglierci i limiti di cui siamo ossessionati, e che per sorte a malapena riconosciamo. Noi siamo Perfetti perché siamo Perfettibili. Dio non ha senso per noi esseri umani perché è il risultato maldestro di un paradosso. Che senso ha qualcosa che riunisce in sé semplicemente tutto? Se si è tutto, non si è più niente, perché non si possiede più un significato, avendoli già tutti. L’essere umano, per fortuna, non è tutto, né niente. È uno. Nella nostra claudicante andatura troviamo ragioni per dare un significato all’oggi e al domani. Noi, nonostante i nostri appariscenti limiti, ci siamo ancora, in barba a tutti quelli che sostengono magniloquenti che abbiamo sempre fatto di tutto per autodistruggerci. Noi diamo un senso all’oggi perché abbiamo un desiderio per il domani, perché sappiamo che il domani avrà un significato, sappiamo che domani sarà un giorno migliore, perché questa è la nostra missione. Questo è il senso dell’essere Perfettibili. Usando una formula matematica, si direbbe che noi siamo un limite, gioco di parole con quanto scritto fino ad ora abbastanza simpatico, un limite che tende ad infinito, senza incontrarlo mai, ma che quantomeno ci prova. Ecco, noi siamo quella tensione all’Infinito che ci definisce come umani. Perché in fondo, il nome della nostra specie ci dice tutto di noi, o quantomeno il sufficiente: homo sapiens, perché essere uomini non è sufficiente, ma uomini legati alla conoscenza ed alla sapienza è più giusto, oltretutto perché l’aggettivo qualificativo sapiens è anche participio presente del verbo săpĭo, săpĕre, sapere, elemento interessante perché ci comunica qualcos’altro in più, ossia la tensione al Perfetto di cui sopra, l’azione già presente ed in essere hic et nunc. Perché noi siamo noi in quanto sapienti, in quanto conoscenza. 

Noi siamo Infinito, perché il moto che ci domina verso l’irraggiungibile ci rende eterni.

Questo è il nostro senso.

E non sono sicuro di questo, nemmeno se fossi Dio.   

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