L’introduzione al mio
post di tre settimane fa recitava, un po’ per boria, un po’ per apprezzamento
dell’adeguatezza, un’espressione in tedesco che mi piace particolarmente.
Parlare di Dio e del mondo, espressione decisamente più magniloquente eppure
definita del nostro un po’ misero più e meno, o tutto ed il contrario di tutto.
Che peraltro, se tentiamo un paragone tra l’espressione corrente tedesca e
l’ultima citata sopra, si potrebbero trovare affinità e si potrebbe addirittura
formulare qualche parallelo, se diamo per accettabile che Dio è tutto ed il
mondo il contrario di tutto, se non fosse che, citando ancora il post che
scrissi in precedenza, il mondo è stato creato a immagine e somiglianza del
Divino, dunque non si capirebbe perché debba essere il suo contrario. Si arriva di conseguenza ad uno stato di paradosso irriducibile, Dio ed il
mondo, Sua immagine ridotta ad uno schizzo, inconciliabile col Padre, eppure
prodotto del perfetto. Può il perfetto produrre l’imperfetto, eppure mantenerlo
coerente con la sua origine?
Questo post parlerà di
varî paradossi, anche se mi piacerebbe inventare una parola nuova, o quantomeno
sperare che sia nuova, perché sono disposto a mettere la mano sul fuoco che
qualcuno, in un altro tempo, luogo o dimensione l’ha già inventata, e pensare
di chiamarla paraeudosso, ossia l’inconciliabilità e l’incoerenza di due
semplici cose, eppure che danno luogo ad un risultato definibile come bello.
D’altra parte, e chiedo scusa per la ridondanza, un’onda laterale è un semplice
e immediato paraeudosso.
Ricorsivamente, ormai
da qualche anno, penso a cosa sia Dio, punto di partenza fondamentale di una
ricerca di chiarezza nella mia testa per risolvere, almeno dal mio punto di
vista, le più banali domande che ci definiscono come essere umani: chi siamo,
da dove veniamo, dove andiamo, cosa succede quando non siamo più. Ricerca di
chiarezza culminata, peraltro, in un punto di umiltà senza mezzi termini,
ovverosia l’ammissione d’incapacità e d’incompetenza per poter procedere alla
risoluzione del problema, e l’asserzione convinta che non sono in grado di
stabilire se Dio esiste o meno, senza per questo voler imporre questa opinione
– perché credo non è – a chicchessia, acme di un percorso personale che, molto
più prosaicamente, ha prodotto il risultato di una bella scomunica da parte di
Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, per le risa di tutti gli astanti.
Aldilà delle opinioni
dei giureconsulti di diritto canonico, ho continuato – e continuo – ad
interrogarmi sulla natura del Divino, da storico, da pensatore libero, da
essere umano nella sua finitezza. Se non che la risposta a cui sono approdato,
invero banalissima ma splendidamente umana, è che il Divino non è nient’altro
che una rappresentazione intangibile di ciò che non siamo e che, in qualche
misura, vorremmo essere. Quali sono, in fondo, gli atti costitutivi di Dio
nella sua declinazione monoteista? Infinito, Onnipotente, Onnipresente,
Onnisciente. In fondo trovo abbastanza paradossale partire dalla nostra
finitezza per giungere alla perfezione: in qualche misura se la razza umana si
fosse concentrata di più sui suoi limiti e finitezze per alleviarle invece che
creare una rappresentazione uguale e contraria a se stessa che finisce per
comandare e decidere, forse adesso competeremmo col Capitano Kirk per arrivare
là dove nessuno è mai giunto prima. Ma questo è un altro discorso. E la cosa
divertente è che già in questa parte di descrizione del problema, sono apparsi
varî paradossi.
Dio come proiezione antipodica
dell’essere umano rispetto a se stesso, in un circolo eterno in cui nessuno è
se non per e nell’altro. Essere umano, finito, limitato, imperfetto,
naturalmente disposto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per essere qualcosa
di più, eternamente scontento del suo stato caduco, che vuole essere Dio e si
scopre ogn’istante terra e cenere e argilla. Eppur non smette. La ricerca come
essenza dell’essenza, la prospettiva come sogno per cui vale la pena esistere,
la forma che è più carica di significato del significato stesso. Questi sono, a
mio modo di vedere, i termini del problema. E non sono a noi sufficienti tutte
le arti onomastiche, etimologiche e descrittorie per ottenere definizioni che
aiutino a modellizzare due enti, anche astraendoli dalla realtà, senza svuotarli
di significato, di sfumature, di dettagli, perché, non dimentichiamolo, per par condicio, e a maggior ragione poiché
si continua a citare Dio e Dei varî, che è nei dettagli che si nasconde il
Diavolo, oltre che nelle pentole, aggiungerei. E andiamo al dunque con un
esercizio di logica che ha pretese ferree ma che difficilmente potrà produrre
un risultato rigoroso.
Dio, essendo proiezione
umana di ciò che l’essere umano non è, è Infinito e Perfetto. Perché l’Uomo
Infinito e Perfetto non è, e ragionevolmente vorrebbe esserlo. Guardando ancora
una volta alla cultura tedesca, questo desiderio fu posto in essere
magistralmente da Goethe nel Faust,
poiché l’anelito di Faust alla perfezione nella più nobile, alta e umana delle
arti, la conoscenza, era a tal punto asfissiante che, in paradosso con la sua
bontà d’animo, non esitò a scendere a patti col Diavolo, con Mefistofele,
altrettanto ragionevolmente l’antipode dell’uomo essendo noi nati a Immagine e
Somiglianza del Divino, per ottenerla. L’Uomo dunque come essere Finito e
Imperfetto.
No
Dire dell’Uno o
dell’Altro Finito e Imperfetto o Infinito e Perfetto significa unire ciò che
non si può unire. Una contraddizione in termini. Vediamo cosa vogliono dire le
parole Finito e Perfetto, dando per assunto che il prefisso in- indica la
negazione della parola dunque non implica modificazioni sostanziali ma solo un
senso uguale e contrario alla parola originaria. Finito, andando a naso e
cercando un po’ in internet qualche sito utile all’analisi, rimanda al verbo
latino finire, dalla parola finis, is, parola molto interessante
perché al singolare significa semplicemente fine, termine, conclusione, mentre
al plurale (fines, ium) significa
confini, frontiere, limiti – siano essi politici o geografici, e aggiungo io
morali –. L’idea che dunque suggerisce il termine Finito è qualcosa di
compiuto, di concluso, di limitato perché detiene dei confini. Ciò che è finito
è al punto d’arrivo, è il non plus ultra,
è il risultato. E poi Perfetto. Ancora, parola di origine latina, per + factum, dove per è un
prefisso per dare un senso di compimento; dunque il Perfetto è un “fatto
compiuto”, un elemento concluso, un risultato, un non plus ultra.
Il paradosso, quello
vero, quello che si nasconde nei dettagli, nella magia delle parole, è che due
termini contrarî sono sinonimi. Certo, probabilmente un vero linguista sosterrà
impettito che sto dicendo un mucchio di stupidaggini, che l’analisi è superficiale,
che non c’è rigore scientifico. Tutto vero. Cerchiamo, però, di leggere quanto
scrivo con una punta di magia e romanticismo. Al peggio, si sorride. Si sorride
ad immaginare che ciò che è concluso sia il massimo grado, sia la perfezione,
sia il non plus ultra, e che abbia in
sé quelle caratteristiche che si cercano nel suo contrario, nell’inconcluso e
inconcludente, nel Perfetto che, in fondo, Perfetto non è o non vuole essere.
Il Finito trova la sua Perfezione nell’attimo in cui il principio agente che lo
muove muore, fissandolo nell’eternità come immutabile, come costante, come
Perfetto perché accaduto. Non è un caso che la parola perfetto sia usata in
tantissime lingue per indicare un tempo passato, ossia un tempo verbale in cui
l’azione è iniziata e conclusa nel passato, un’azione che è fissata per sempre
in un tempo che non è più. E questa definizione mi piace molto per arrivare al
contrario delle due parole finora analizzate: Infinito e Imperfetto. Infinito,
termine uguale e contrario a Finito, impensabile, irrazionale, inumano,
paradigma vero di tanti verbi in tante lingue. Infinito è senza principio né
conclusione, è privo di un principio agente che lo muove perché è in sé il
principio agente, perché comunica significato. È la liberazione dai vincoli
terreni e dalle finitudini che sono principio di definizione dell’essere umano.
E Imperfetto. Inconcluso, dinamico, attivo eppur vittima di quel principio
agente che vorrebbe dominare, o essere. Ritornando al punto verbale, Imperfetto
è ciò che viene da un passato che ci lambisce ancora e coi denti e con le
unghie tenta di arrivare fino a noi, nella sottile linea rossa che chiamiamo
presente, solo per dirci che è vivo, per metterci il fiato sul collo, per
comunicarci una relazione. È sinonimo un po’ claudicante d’Infinito.
Può Dio essere Infinito
e Perfetto? Può l’uomo essere Finito e Imperfetto?
Non sono nessuno per
asserire qualcosa che abbia un vago retrogusto di certezza in merito a queste
domande. Ma quello che credo, umanamente, frutto incompiuto di tante ore di
pensiero, è che Noi siamo Infinito. Questo, in fondo, è il vero paraeudosso.
Noi siamo Infinito perché siamo perfetti, stavolta nel senso di limitati, siamo
carne, Memento homo, quia pulvis es
et in pulverem reverteris, torneremo polvere. Ed è questa limitatezza,
questa caducità a toglierci i limiti di cui siamo ossessionati, e che per sorte
a malapena riconosciamo. Noi siamo Perfetti perché siamo Perfettibili. Dio non
ha senso per noi esseri umani perché è il risultato maldestro di un paradosso.
Che senso ha qualcosa che riunisce in sé semplicemente tutto? Se si è tutto,
non si è più niente, perché non si possiede più un significato, avendoli già
tutti. L’essere umano, per fortuna, non è tutto, né niente. È uno. Nella nostra
claudicante andatura troviamo ragioni per dare un significato all’oggi e al
domani. Noi, nonostante i nostri appariscenti limiti, ci siamo ancora, in barba
a tutti quelli che sostengono magniloquenti che abbiamo sempre fatto di tutto
per autodistruggerci. Noi diamo un senso all’oggi perché abbiamo un desiderio
per il domani, perché sappiamo che il domani avrà un significato, sappiamo che
domani sarà un giorno migliore, perché questa è la nostra missione. Questo è il
senso dell’essere Perfettibili. Usando una formula matematica, si direbbe che
noi siamo un limite, gioco di parole con quanto scritto fino ad ora abbastanza
simpatico, un limite che tende ad infinito, senza incontrarlo mai, ma che
quantomeno ci prova. Ecco, noi siamo quella tensione all’Infinito che ci
definisce come umani. Perché in fondo, il nome della nostra specie ci dice
tutto di noi, o quantomeno il sufficiente: homo sapiens, perché essere
uomini non è sufficiente, ma uomini legati alla conoscenza ed alla sapienza è
più giusto, oltretutto perché l’aggettivo qualificativo sapiens è anche
participio presente del verbo săpĭo, săpĕre,
sapere, elemento interessante perché ci comunica qualcos’altro in più, ossia la
tensione al Perfetto di cui sopra, l’azione già presente ed in essere hic et nunc. Perché noi siamo noi in
quanto sapienti, in quanto conoscenza.
Noi siamo Infinito,
perché il moto che ci domina verso l’irraggiungibile ci rende eterni.
Questo è il nostro
senso.
E non sono sicuro di
questo, nemmeno se fossi Dio.